Attività antropiche sulla fiumara del Rabbi
Panoramica sulle valli, sulle colline, sulle campagne che circondano il capoluogo e che lo rendono luogo di riferimento e centro di aggregazione e di coagulazione degli interessi fin dalla sua fondazione al tempo del Console Livio. La via Emilia viene intersecata dalle strade di fondovalle che seguono le fiumare dei torrenti (è magniloquente chiamarli fiumi) e che arrivano sullo spartiacque per poi ridiscendere lungo i boschi dell'Appennino toscano. Queste strade raccoglievano e raccolgono tuttora il traffico dei vari paesini e nelle loro derivazioni laterali, quelle che si chiamano strade di contro-crinale, permettevano di raggiungere le varie Badie, le torri, i conventi e i castelli disseminati un po' dovunque, ora ruderi in abbandono ma un tempo centri di vita civile o religiosa di straordinaria importanza per la comunità. In collina e in montagna le rovine almeno sono rimaste ma in pianura, complice l'assoluto bisogno di spazi abitativi aumentato al crescere della popolazione, molte sono le costruzioni completamente disperse, distrutte fino alle fondamenta, i cui materiali sono stati recuperati e reimpiegati mano a mano che si manifestava il bisogno sempre disperato di materiale a basso costo. Così troviamo case e chiese i cui muri inglobano marmi romani, mattoni medioevali e pietre tagliate di chissà quale provenienza, travi di legno di multi secolare vetustà ma che ancora svolgono egregiamente il loro compito, il tutto in un composito nuovo ordine prescritto dalle esigenze del momento; a volte sono povere case di lavoratori agricoli, altre volte sono costruzioni comunitarie con architettura un tantino più elegante o luoghi di culto, altre sono sontuose ville votate alla spensieratezza dell'estate da trascorrere all'ombra di alberi monumentali tra ronzio d'api e frinire di cicale.
Ma torniamo alla nostra Via Emilia. Nel numero precedente ci siamo infilati lungo il corso del fiume Montone proseguendo fin verso la Terra del Sole usando il ricordo e sfogliando il libro di Storia in riferimento alla località sorvolata così, a volo di uccello, citando passi e cronache importanti di uomini e regni che hanno segnato gli avvenimenti della Nazione prima ancora che nascesse fino a quando si è compiutamente definita. Adesso, passeggiando piano piano sull'argine del Montone all'ombra dei salici e allo stormire dei pioppi nella brezza mattutina partendo dal Ponte di Schiavonia sfioriamo un'altra pagina di storia sempre strettamente collegata a quanto abbiamo avuto modo di dire prima ma ovviamente complementare e connessa all'ambiente. Dapprima troviamo l'antica postazione di difesa in origine inglobata nelle fortificazioni cittadine, la torre del Giglio, ora rudere vittima della necessità di spazio per il traffico che ha ignorato la vetustà storica a tutto vantaggio delle ruote, torre su cui è sorto un ristorante e, quasi di fronte sull'altra sponda, la cartiera presso la quale scarica il canale che proviene dalla chiusa del Brullo e che fa girare la ruota Francis della piccola centrale elettrica che procura un minimo contributo ai consumi elettrici poi, sempre proseguendo, il letto di erosione del fiume si allarga fino ad arrivare di fronte al Piazzale Ravaldino da cui parte la strada che porta al fiume e permetteva alla Fornace Malta ora in disuso di ricevere e trasferire materiali. Ora fa parte dell'archeologia industriale: scheletri di capannoni e, muto testimone, l'alta ciminiera che non fuma più. Alla sua ombra le potenze dell'acqua, del fuoco e della terra si fondevano assieme per formare quel materiale da costruzione che da millenni costituisce lo scheletro delle nostre città che sorgono in una zona povera della pietra resistente ai secoli. Nel dialetto romagnolo “una pré” è un mattone sia nella considerazione popolare sia nell'accezione comune dei mastri costruttori e il cotto è presente dappertutto tanto nell'arte quanto nell'edilizia e probabilmente ogni casa sia di città che del forese ha, incastonati nei suoi muri quei mattoni. A parte le considerazioni di carattere sanitario che usano la stessa espressione per una grave malattia, nelle argomentazioni economiche della popolazione avere “e mël d'la prè” significa avere un desiderio assillante di proprietà edilizie e non ha valenza totalmente negativa ma rispecchia l'alta considerazione in cui è tenuto il possesso della abitazione quale prima aspirazione della gente; l'essere proprietario della propria casa è senz'altro un punto di merito e l'averne molte è pure un segno di distinzione. Risalendo la golena nella zona degli orti che era proprietà per la maggior parte della famiglia universalmente conosciuta per “Manfrigul” e ora appartenente in gran parte al Parco Urbano, in fregio al Canale di Ravaldino, un poco soffocata dalle case e dalle siepi ci troviamo di fronte all'oratorio del Colombano, piccola, modesta costruzione, fino a non molto tempo fa attiva ma ora non in uso per le funzioni per cui è nata: matrimoni, funerali, le messe e le novene al mese di Maggio, oasi di religiosità domenicale. Beghe tra proprietari ne hanno procurato il blocco e la totale non fruibilità anche solo della visita. Sono i guasti dei tempi e si tradurranno in guasto nel tempo inevitabilmente, con degrado anche di quel poco di valore artistico che potrebbe essere tramandato.
Questa vallata stretta tra quelle del Bidente e del Montone è stata sempre un poco emarginata non avendo diretta comunicazione con le zone toscane o umbre e, se si considera il periodo storico dalla nascita del castello di Predappio da parte di un “Conte d'Appia” che ha visto il passaggio di compagnie di ventura fino all'ultima guerra che ha visto l'impegno della popolazione contro l'invasore tedesco con notevole sacrificio di vite umane, è passata attraverso i secoli senza particolari luci o ombre e sommovimenti di popolo o battaglie memorabili. Un bagliore di cronaca si è avuto nel periodo tra le grandi guerre quando la zona ha avuto rinomanza come luogo di nascita di un certo condottiero, ma da sempre si è vissuto nella modestia del proprio lavoro, strappando faticosamente alla terra i frutti del nutrimento per cui, è risaputo, quando si ha appena il tempo per sopravvivere, null'altro si riesce a concepire. Senza l'accumulo non si possiede la riserva che libera dal bisogno e permette di esprimere le capacità intellettuali: lavoro, solo lavoro per raggiungere un minimo di benessere lungo l'arco dei secoli. Questa in ultima analisi la condizione della vita rurale!
Passeggiando naso all'aria lungo l'argine del fiume, raggiungiamo il punto di confluenza del Rabbi che si immette nel Montone alla Bertarina. Luogo ameno, già abitato nella preistoria ed ora inglobato nel Parco Cittadino e frequentato da chi vuole fare una salutare passeggiata o una sgambata in bici. Un ponte in legno collega le rive opposte e, alzando gli occhi, puoi intravedere tra gli alberi il grandioso padiglione del nuovo Ospedale che integra e completa il precedente complesso insediato negli anni '30 e, parco nel parco, offre ettari ed ettari di prati e alberi imponenti in fregio alla sponda del fiume. Passo dopo passo seguendo lo stradello sull'argine si arriva alla grande ansa delimitata a monte dal ponte che nel 1445 fu costruito in legno ma che il Rosetti nel suo “La Romagna” indica come rifatto in mattoni nella seconda metà del IXX° secolo. Un tempo rappresentava l'unica strada di comunicazione con la frazione di Vecchiazzano ed ora, debitamente restaurato e ripulito fa parte della più bella passeggiata dei dintorni. Qui puoi osservare il breve volo di un fagiano, ti può attraversare la strada una biscia d'acqua e non è raro vedere i salti acrobatici dei caprioli o intravedere tra i cespugli la sagoma di un cinghiale o quella di un istrice: ne sapeva qualcosa il cane di un mio vicino che, assalito l'animale riuscì a stento a fuggire, anche se trasformato in una specie di puntaspilli, tra guaiti strazianti. Incredibilmente le sere d'estate si possono ascoltare i gracidii delle rane che, da quando la qualità dell'acqua è risalita, hanno ripreso a popolare le rive. L'assoluta mancanza di traffico molesto, pace e aria pulita ne fanno la meta ideale per una camminata, col cane o senza, che ti trasborda, nel giro dei cento metri necessari a lasciare il caotico traffico di Viale dell'Appennino, alla pace della Via di Ponte Rabbi superando il plurisecolare ponticello sul Canale di Ravaldino. Anche questo ha una storia da raccontare: pare che il Generale Garibaldi abbia sostato per il riposo di una notte nella casupola attaccata al ponte durante la “Trafila” per cui casupola e ponte sono sempre stati conservati e protetti, tuttavia altre fonti indicano il passaggio al ponticello della Bertarina, trecento metri più a nord. Ricordo che durante il grande inverno del 1953/54 venivano tutti i giorni i pompieri a spaccare il ghiaccio sotto il ponte per impedirne il crollo che avrebbe isolato completamente la frazione di Vecchiazzano e impedito il passaggio della corriera, la SITA, che portava in centro. Io abito a non più di cento metri dal ponte per cui, nelle giornate con lastrone di ghiaccio di venti centimetri, grande freddo e nevone, nelle quali era giocoforza imbarcarsi sull'autobus, aspettavo al calduccio il rumore del mezzo che sferragliava con le catene verso la frazione e, conoscendo i tempi, dopo cinque minuti partivo per arrivare alla fermata giusto in tempo per salire sul bus. Ma fin quando era possibile la macchina regina della strada era la bicicletta: estate o inverno, acqua o sole sempre a pedalare e non importava se il mezzo era un catenaccio rugginoso e senza cambio di velocità. Io ho portato i calzoni corti fin verso i quattordici anni, così come la maggioranza della mia generazione ha fatto ed era la normalità, quando il pelo delle gambe ormai denunciava l'età per cui scattavi di categoria: da ragazzino a giovane studente con diritti e doveri relativi. Ma eri temprato, gambe forti, mai un raffreddore: mica come adesso che se spalanchi un armadio i bambini prendono un malanno tanto sono premurosamente coperti! Ma non divaghiamo e proseguiamo nel nostro viaggio per i dintorni. È interessante notare che il vecchio ponte è stato costruito ad arte là dove finisce il substrato sabbioso e comincia ad apparire la roccia sedimentaria. L'arenaria a lastre, sottili, facilmente staccabili e friabili, che a monte del ponte il fiume trascina e frantuma levigando i ciottoli e arrotondandoli. Sono due mondi: a monte i sassi, a valle la sabbia, separazione netta, a monte sciacquio di corrente tra i sassi, a valle silenzioso scorrere di acqua tra le erbe delle rive, di tanto in tanto un incresparsi in cerchio della superficie, tipico della carpa che da sempre abita queste acque o un silenzioso e sinuoso attraversamento di una biscia d'acqua. La mia casa è a un tiro di schioppo dal ponte e l'ambiente fluviale, quando eravamo molto ma molto più giovani, era il terreno di gioco preferito nonostante i continui richiami dei genitori che mettevano in guardia sulla pericolosità del gorgo sotto al ponte. Effettivamente c'era una bella profondità e ricordo anche che da sopra si vedevano nuotare pigramente molte carpe di grandi dimensioni che, nonostante i nostri sforzi non siamo mai riusciti a catturare: probabilmente sono morte di vecchiaia. Altra meta di pomeriggi estivi era poco più avanti una spiaggetta, sotto una scarpata di tenera arenaria nella quale durante la guerra era stato scavato un rifugio che nessuno di noi, nemmeno i ragazzi più grandi aveva mai avuto il coraggio di esplorare, stante anche la mancanza di attrezzature adeguate e nel timore di reprimende terribili vista la pericolosità. Già siamo rimasti shoccati non molti anni fa alla notizia che nel rimaneggiare il vecchio ponte sul fiume è stato ritrovato un deposito di bombe sul quale sono passati migliaia di mezzi anche pesanti e di ignare persone, fortunatamente senza conseguenze.
Due o tre sentieri carrabili venivano usati dai carrettieri (i baruzēr) per caricare ghiaia di fiume o sabbia di non eccelsa qualità ma per i tempi correnti andava benissimo: il mulo o il cavallo trainavano a furia di frustate carichi immani e il carrettiere si attaccava volentieri alla bottiglia. Gente senza età, consumi calorici strepitosi e forza erculea, direttamente proveniente dal medioevo e rimasta ferma nel tempo, sepolta solo dall'avvento del camion. Ma riprendiamo il nostro percorso. Ca'Ossi è la prima frazione che si incontra percorrendo Viale dell'Appennino: il nucleo originale era formato da un microscopico gruppo di case allineate in fregio al canale di Ravaldino e appoggiate le une alle altre a partire dal ponticello sul canale con un unico palazzo, ora modificato, appartenuto ad una famiglia borghese ma poi passato di mano e finiva con la bottega del fabbro, un antro fumoso, polvere e scintille dappertutto ma di un fascino incredibile. Conoscevo il fabbro, che era in grado di riparare qualsiasi cosa o di ricavare un capolavoro da un informe pezzo di ferro. Pare che il palazzo fosse conosciuto come “Cà dagl'Oss”, nome successivamente modificato nel vernacolo in “Caiossi”essendo nella disponibilità della famiglia di un macellaio che aveva fatto fortuna e prima ancora di proprietà di un signor Pasqui primo fabbricante in Italia di una birra ottenuta con tutti ingredienti italiani, ma di questo si parlerà più sotto.

Sull'altro lato della strada si sviluppa quello che è nato nel ventennio come Villaggio Arnaldo Mussolini quasi ad imitazione di una centuriazione ma molto più in piccolo: case squadrate, nello stile dell'epoca, coi soffitti autarchici di arelle, a quattro unità abitative ognuna col suo quarto di lotto di terreno più che sufficiente per un orto, strade a croce, ogni isolato di quattro lotti. Molte sono state modificate ma molte sono rimaste tal quali e nel complesso l'architettura generale si riconosce ancora molto bene. Una curiosità già accennata sopra: alla metà del IXX° Secolo esisteva a Caiossi (Dizione originale di prima che l'eleganza della parlata imponesse l'uso di Ca'Ossi) una fabbrica di birra , che imbottigliava il prodotto finito in bellissimi contenitori in ceramica e utilizzava la materia prima direttamente coltivata in loco sui terreni prospicienti la golena fluviale sfruttando la possibilità di utilizzare le acque del canale per la coltivazione del luppolo che ha bisogno di un notevole livello di irrigazione. Ora la fabbrica è scomparsa e ne rimane solo il ricordo in una bella pubblicazione di un discendente della famiglia del birraio dell'ottocento. Peccato perché i ricordi non si bevono e mi sarebbe piaciuto poter sottolineare la supremazia del prodotto romagnolo, oltre che nel campo dei vini, anche in quello delle birre! Passiamo oltre. Viale dell'Appennino in omaggio all'allora capo del governo venne sistemato nel ventennio da strada di campagna a viale alberato, asfaltato fino a Predappio, di comoda percorribilità. Segue il percorso del Canale fino a S.Lorenzo, poi segue il letto del Rabbi a mezza costa per il resto del percorso. L'acqua è un bene fondamentale per cui tutti i paesini delle nostre valli sono a cavallo di un fiumiciattolo o di un torrente: dovunque tu abiti devi sentire l'acqua scorrere e se non c'è in natura tu la devi portare. Il gorgoglio dell'acqua che scorre e un suono rassicurante e riposante allo stesso tempo: significa che hai a disposizione la forza vitale dell'acqua per le piante, per le bestie, per la forza motrice, per la pulizia, per ogni altro bisogno. Il canale di Ravaldino è il canale dei mulini da almeno ottocento anni. A cominciare da quelli posti in città ce ne sono almeno sei o sette (forse sono di più) di conosciuti lungo il percorso dalla chiusa di Calanca in giù. Il Mulino del Fico potrebbe essere il più antico rimasto, ora completamente restaurato pur avendo perso le sue funzioni originali dopo aver lavorato ininterrottamente per più di otto secoli. Parlando di mulini siamo quasi arrivati a S.Martino in Strada ma prima conviene spendere due parole per ricordare Villa “La Gesuita” situata poco oltre l'incrocio con via Ribolle, immersa nel suo ambiente originale che, pur ridotto allo stremo e nonostante l'accerchiamento dei palazzi e l'erosione delle sue pertinenze, non ha perso il fascino del suo parco, ricco di alberi secolari, ombre e fresche fontanelle. Ora è di proprietà della Parrocchia San Pio X che l'ha avuta in eredità dal celebre tenore Angelo Masini il quale utilizzava la Gesuita come residenza di campagna al centro delle sue proprietà agricole che allora erano notevolissime. Un tempo vi si tenevano ricevimenti, concerti e belle serate, ora la carità cristiana con opera meritoria se ne serve per ospitare persone non autosufficienti e in condizioni di estremo bisogno. Una volta all'anno si può frequentare e si può passare all'ombra odorosa di tigli secolari un pomeriggio. Quasi di fronte all'ingresso della Gesuita, sull'altro lato della strada proprio in riva al canale si erge una di quelle cellette votive, comuni lungo le strade fino a quando non sono diventate intralcio all'allargamento delle sedi stradali, poste ad una distanza l'una dall'altra pari allo spazio percorribile a piedi recitando due o tre o anche quattro rosari di preghiere; salvo alcune eccezioni, vedi la “Zaltena dal pasar” (la celletta dei passeri) in zona Romiti e dotata di alcune qualità artistiche, non sono capolavori d'arte ma sono il frutto della devozione popolare e generalmente si salvano dal vandalismo che regna ovunque, salvo disastri stradali, come è capitato una cinquantina di anni fa a Vecchiazzano. Genericamente sono denominate “Maestà” ma in dialetto più comunemente sono “Zaltén” (Cellette) e non manca mai un fiore o una candelina in ogni stagione. Poi nel mese di Maggio, se lo spazio antistante lo consente, tutte le sere c'è novena e per tutto il mese rimangono in permanenza le seggiole piazzate ad ospitare preghiere e chiacchiericcio immancabile che fa comunque parte del sentimento popolare utilissimo a rinsaldare legami sociali e rapporti di vicinato. Nei centri abitati l'uso dell'immagine sacra è comunissimo, santi e madonnine sono inseriti nelle nicchie nei muri delle case e nelle periferie non mancano le immagini murate sopra il portone di casa con relativa lucina votiva: un tempo la Madonna proteggeva la porta di casa e S. Antonio la stalla. Ma torniamo a S. Martino in Strada, altra frazione lungo le rive del Rabbi che ora cominciano a diventare alte dato che ci avviciniamo alla collina. Secondo Emilio Rosetti, ma io non l'ho mai sentito nominare così se si eccettua il nome del Santo titolare della parrocchia si S. Savino in Schiedo, il fiume si chiama appunto anche Schiedo, nome che non so da cosa derivi ma se così riferisce Rosetti ci credo.

veduta di Vecchiazzano sotto la neve (Foto Dino Spighi)
Sulla riva sinistra, quasi di fronte, si stende il villaggio di Vecchiazzano che, specialmente visto da Viale Appennino in estate con tutto il rigoglio del verde è una cartolina: macchia rosso-ocra dei tetti, bianco delle case radunate attorno al campanile che svetta elegante, come sfondo la campagna e la corona delle prime colline, è proprio l'immagine che ti aspetti guardando un quadro con la rappresentazione di un villaggio; d'inverno poi pare una cartolina natalizia: dal bianco spicca il gruppo di case raccolte attorno alla chiesa, ognuna col suo candido cappuccio e gli alberi dei giardini carichi di neve. Unica nota stonata lo scatolone di cemento della Casa di Riposo, utilitario indubbiamente ma purtroppo brutto, nato per raccogliere umanità al tramonto. Questa zona della campagna è uno dei luoghi del mio trascorrere esistenziale e mi piace moltissimo: è la quiete dell'isola felice, il rifugio che esclude il frenetico andare. Peccato che anche qui il traffico tenti di rovinare tutto: ti sposti di poche centinaia di metri e ti ritrovi nel caos di Via del Partigiano: le auto sono marchingegni prepotenti che hanno bisogno di posto, tanto posto e che, se costrette in poco spazio, protestano violentemente con molto rumore e tanta puzza per cui ecco sorgere parcheggi immani, strade sempre più larghe e rotonde dappertutto. Territorio sottratto al vivere pacato, alla calma della campagna: altro che stendere letame e piantar viti, si stende asfalto e si piantano paracarri e segnali stradali. La nuova Via del Partigiano convoglia orde di automezzi rumorosi in determinate ore del giorno, poi si calma ma c'è una differenza macroscopica da quando si arrivava a Terra del Sole su un viottolo polveroso su cui transitavano biciclette, qualche motorino e, forse, due o tre macchine al giorno. Ti fermavi a piluccare quattro ciliege, un grappolo d'uva, un fico, due azzeruole (i “pumariel”), o un grappolo di frutti del biancospino che in dialetto si chiamano “sarzöl” molto apprezzati anche dagli animali selvatici, a seconda della stagione. Adesso al massimo ai bordi raccogli bottiglie di plastica e lattine di birra. La bolla di pace che un tempo includeva tutto il visibile intorno si è ridotta enormemente e tremola anche a seconda dell'orario. Tutto cambia, bisogna adattarsi anche se a malincuore. È interessante notare che ai tempi in cui il Rosetti scriveva, la parrocchia di S. Nicolò in Vecchiazzano comprendeva anche Caiossi arrivando alla Bertarina, senza distinzione territoriale. Pare anche che il toponimo abbia derivazione etrusca ma nulla di certo. Oggi Vecchiazzano è sede di un polo ospedaliero di eccellenza che nasce negli anni '30 e continua tuttora ad essere completato e ammodernato, inoltre la frazione è divenuta un quartiere satellite senza però i macroscopici errori fatti nelle grandi città. Perciò niente palazzoni invivibili, solo unità piccole, case abbastanza disperse nella campagna, orti e giardini ben curati, l'asilo-nido, un centro commerciale non troppo invadente, un paio di forni e di macellerie, persino la pescheria con un bellissimo banco di pesce sempre freschissimo, tutti i servizi alla persona di discreto livello: la modernissima farmacia, la scuola elementare, l'ampio centro sportivo, la parrocchia e la casa di riposo, gli altri centri di aggregazione da cui nascono le varie iniziative atte a raccogliere gente in vena di farsi un bel piatto di cappelletti o di polenta col cinghiale oppure, se sportiva, una bella cicloturistica o una podistica oppure una partita a calcetto o tennis. Risalendo per la campagna lungo le tre o quattro strade che arrivano alle colline le case si diradano trasformandosi in ville con ampio parco e vista panoramica della pianura romagnola. Sono strade percorribili in bicicletta senza troppa fatica con un minimo di allenamento e difatti la passione per la bici regna sovrana (ognuno di noi minimo ne possiede tre), le strade verso collina si prestano, fondo buono, scarso traffico, ce n'è per tutti i gusti: sole, ombra, salita, salitella, anche salita dura, discesa spericolata, rettilinei per i fondisti; puoi ridiscendere verso Vecchiazzano oppure verso Castrocaro o verso Predappio a scelta. Qui è nato negli anni a cavallo del '60 il Trofeo Tendicollo che, per chi si ricorda, era una gara importante che vedeva la partecipazione di tutti i migliori corridori del tempo e adunava un pubblico folto e appassionato. Ricordo che, avendo pochi soldi in tasca, si faceva di tutto per non pagare l'ingresso al circuito attraversando impavidi campi e siepi. Adesso sono cose che non si fanno più, abbiamo scoperto che, prostata permettendo, la bici è meglio utilizzarla per cui si vedono in giro frotte di cicloturisti che inforcano tecnicissimi mezzi da molte migliaia di euro perché l'apparenza conta moltissimo: magari fan solo quindici chilometri ma vuoi mettere farli su un mezzo invidiato da tutti e con divise che costano più di un vestito di marca! Da casa vedo passarne a frotte, gruppi di sessanta, settanta persone, richiami a voce alta, risate alle battute, fischiare caratteristico delle catene e degli ingranaggi, scatto secco dei cambi di velocità. Vorrei tanto essere con loro ma non si può, purtroppo!
Non conosco la composizione del terreno ma si è sempre detto “A Vciazân la tëra la j'è rossa” intendendola con ciò poco buona per l'agricoltura ma “Bóna pr'al pignatt” e non so se durante l'ultimo secolo gli emendanti abbiano o meno cambiato la situazione ma vedo che se l'orientamento della produzione è rivolto al vigneto e anche all'ulivo quella certa vocazione risulta conveniente e, se si esclude lo spazio occupato dalla zona artigianale, la campagna prevale ancora. Pare incredibile ma all'inizio dell'estate è ancora possibile di sera venire ad ammirare sui campi del grano in fioritura il tappeto scintillante delle lucciole che in pianura sono state sterminate dai veleni.
Dopo questa divagazione recuperiamo Viale dell'Appennino e proseguiamo osservando quello che si offre alla vista: passata la Gesuita e sempre seguendo il gorgogliare del canale di Ravaldino si supera il Mulino del Fico e, passando davanti ad una bella villa settecentesca con classica torretta, di proprietà di una famiglia forlivese e seminascosta dalla vegetazione si arriva al villaggio di S. Martino in Strada. Nel suo impianto generale probabilmente è rimasto come alle origini, tutto allineato lungo la strada che portava in Toscana, con la chiesa probabilmente sorta sopra le rovine di altre più antiche costruzioni dato che il sagrato è il punto più alto della zona: bisognerebbe scavare sotto ma la presenza di una banca, la canonica e altri edifici lo impediscono. La strada, sempre secondo il Rosetti e altre fonti, si chiamava “Via Romipetarum”. In origine esisteva anche un castello ora totalmente scomparso di cui resta solo, forse, un accenno nel nome di una stradina che si chiama “Via del Bastione”. Con lo stesso nome esisteva anche un mulino ora scomparso sulla sponda del canale che scende dalla Chiusa di S.Lorenzo. Appena passata la chiesa di S. Martino la strada si biforca: via Monda porta verso Meldola, Viale dell'Appennino prosegue verso Predappio sempre seguendo il canale. È interessante fare una piccola deviazione verso sinistra scalando le prime rampe della strada che porta a Rocca delle Caminate per arrivare alla chiesetta di Collina dedicata a S. Apollinare e sorta sulle rovine di un antico castello della famiglia Orgogliosi. Il Parroco ora scomparso curava un piccolo osservatorio astronomico e una stazione sismografica; ora è in stato di semi abbandono, si dicono messe solo su intervento del parroco di S. Martino, ed è un vero peccato che nessuno si occupi più di stelle perché la posizione è molto bella. A S. Lorenzo, nella chiesa esiste una lapide romana che parla di un “Sapinio Faustino” di probabili origini Sapinie a testimoniare la vetustà dell'insediamento. Al ponte di Calanca di S. Lorenzo c'è la chiusa che dà origine al canale che ha fornito per secoli la potenza necessaria alla macinatura della farina che ha permesso a intere generazioni di forlivesi ed ora anche di turisti di masticare con gusto pane, piadina, ciambelle e succulenti paste asciutte e cappelletti. Per inciso segnalo che il nonno di mia moglie ha svolto l'incombenza di “chiusarolo” per circa quarantanni del secolo scorso regolando la chiusa senza lasciare a secco i mulini e senza provocare alluvioni. Prendiamo S. Lorenzo come confine del forese e torniamo indietro per la via Monda seguendo i passi dei pellegrini che si recavano a Roma appunto sulla “Via Romipeta”. Pare che questa via, ma la faccenda è molto controversa per via delle discordanze tra Tito Livio e Strabone, corrispondesse ad una seconda “Via Flaminia” che doveva unire Bologna con Arezzo passando attraverso le nostre colline. Pare inoltre, ma non so con quale fondamento, che questa corrispondesse anche alla “Via Gallica” seguita da Brenno per andare ad assediare Roma e usata pure da Annibale al tempo in cui scorrazzava per l'Italia con elefanti al seguito, dai Longobardi per distruggere Forlimpopoli e poi da tutti quelli che invasero e saccheggiarono l'Italia avendo cura di usare le strade più comode dato che esistevano già. Quello che è certo è che da qui sono passati tutti e ognuno ha lasciato un segno del suo passaggio, non fosse altro che nel linguaggio. Prova ne siano le radici nelle molte lingue europee di tantissimi dei nostri vocaboli dialettali. La Romagna, almeno in questa parte, è diventata un crogiolo di razze ed è rimasto qualcosa di ognuna, rispecchiata nei tipi fisici quanto mai vari della popolazione. A un certo punto la strada sale sulla prima gobba collinare (la rapëda ad Malguaj) per poi ridiscendere a valle dopo pochi chilometri correndo su un promontorio che a sinistra si affaccia sulla pianura e a destra declina su una serie di piccole valli abitate da tempi immemorabili, con buona terra e ricchezza di acque. Dove inizia la salitella della Monda terminava quel lembo di foresta che ora non esiste più denominato appunto “Selva della Monda” e finito sotto la scure dei disboscatori per recuperare terra coltivabile. Ivi sorgono due ristoranti di un certo nome uno dei quali usufruisce dei locali di una villa settecentesca e resterà nei miei ricordi poiché un sacco di tempo fa vi si è svolto il mio pranzo di nozze. Salendo lungo le strade di queste collinette si gode di un panorama di ampio respiro: sulla destra Bertinoro, sulla sinistra il castello di Monte Poggiolo che delimitano la visuale sulla pianura col mare sullo sfondo che luccica al sole. Questa è una zona che mi piace moltissimo: la vista delle vallette ondulate ricche di vegetazione è molto gradevole sia in estate sia in inverno con le macchie scure degli alberi e il bianco dei campi e con i camini delle case che fumano. Moltissime case di questa che ormai potremmo definire periferia di Forlì possiedono un camino in efficienza: l'anonimato del riscaldamento centralizzato ancora non ne ha sepolto l'uso. Un tempo il bruciare la legna ricavata dagli alberi abbattuti dai fortunali consentiva di tenere in ordine le sponde dei fiumi il ché è fondamentale per evitare piene e inondazioni; inoltre chiunque ne avesse bisogno tagliava erba, canne, cannella palustre e rami facilitando in tal modo il defluire delle acque. La gente di qui ha radici profondamente piantate nella campagna e ancora il lavoro del contadino gode di una considerazione almeno pari a quella di una qualsiasi altra occupazione e assicuro che conosco tanti che sono tornati ai campi anche se con tanto di laurea in tasca. Proprio dove inizia il declivio che riporta a valle, località Farazzano, un tempo sorgeva un convento, forse “Ospitale” per pellegrini, ora semplice casa colonica. Da li si vede il complesso di Scardavilla, convento Camaldolese del 1609 ora proprietà privata e in stato di abbandono ma che conserva ancora un modestissimo lembo di bosco autoctono un tempo curato dai frati e ora protetto come biotopo e in carico al comune di Meldola. Sul complesso aleggia una leggenda che ha radici secolari e a cui ancora in molti credono: la pignatta dei Marenghi. Sarebbe stata sepolta dai monaci in fuga per evitare una razzia e poi mai più ritrovata. Chi dice che è sepolta nel bosco, chi dice che è sepolta sotto il convento, le voci si incrociano ma i risultati delle ricerche sono pari a zero: dei marenghi nessuna traccia nonostante lo zelo e le tecniche avanzate di esplorazione. Ora casa padronale e convento sono di proprietà privata e nessuno abita nel sito ma io conoscevo un poco la famiglia che da generazioni ha abitato il luogo e posso assicurare che di arricchimenti improvvisi non c'è stata ombra e che se oro c'era questo stava nel frutto della fatica che produce grano, vino, olio, ortaggi e carni e frutta e miele. Terra buona ma che richiede tempo, fatica, sudore e voglia di fare.
Affacciati alla vallata del Bidente ci fermiamo, con negli occhi la sagoma dei colli di Bertinoro, la torre lontana di Teodorano e quella più vicina della Rocca delle Caminate, negli orecchi il suono di una campana che non suona più e il tintinnio di marenghi soltanto sognati e mai accarezzati e in gola il sapore di un dito di Albana e di un boccone di ciambella. |