Gli eventi dell’anno 1939 corrono irrefrenabili verso lo scoppio della seconda guerra mondiale. Le ambizioni espansionistiche del nazismo si concentrano verso la conquista della Cecoslovacchia e della Polonia. L’Italia invade l’Albania e anche questo dimostra l’incapacità del fascismo di concepire le relazioni internazionali senza l’uso della forza. Senza molta convinzione da parte di Mussolini, la sua politica si orienta verso un patto di alleanza militare con la Germania che verrà sancita dal “patto d’acciaio”. Mussolini, pur ritenendo l’Italia non preparata a sostenere il peso di un conflitto mondiale, lega, anche contro il parere del genero Galeazzo Ciano, in maniera definitiva i destini del fascismo a quelli del nazismo. Con l’armistizio dell’8 settembre 1943 si pensa che la guerra sia finita, ma con lo sfascio dell’esercito italiano e le nuove lotte ha inizio il periodo peggiore della seconda guerra mondiale. La paura, l’incertezza e la stanchezza del conflitto hanno logorato i nervi ai soldati e ai civili, sottoposti a continui bombardamenti, in questa guerra che sta per finire ma che ancora chiede inutili sacrifici. L’esercito non ha più controllo e i soldati scappano attraverso i campi. Sono tutti molto giovani e hanno fretta di tornare a casa, così per alcuni giorni è un continuo susseguirsi di ragazzi in fuga. Dopo l’8 settembre anche a Vecchiazzano si formano alcuni gruppi di partigiani aderenti al P.C.I. Diversi giovani, fuggiti dall’esercito, si danno quindi alla “macchia”. Da un po’ di tempo nel boschetto di acacie di casa Bróna, sulla strada della Punta, si radunavano alcuni antifascisti per discutere come poter organizzare un’eventuale resistenza. Vi partecipavano Vincenzo Fiumi, detto Bróna, Achille Ricciardi, detto Pacanin ad Ciarôn, Ferdinando Strocchi, detto Nandin ad Stróc e Armando Mercuriali, detto Lurinzêt. Intanto, dopo l’8 settembre, a Vecchiazzano si organizzano le “staffette” per i collegamenti coi partigiani che operano sulle colline nella valle del Bidente. Il loro compito era quello di far pervenire rifornimenti alimentari ed informazioni. Sembra che per consegnare le notizie ai partigiani, alcune “staffette”, calzassero delle scarpe il cui tacco cavo poteva nascondere dei messaggi in codice. Fra le “staffette” di Vecchiazzano si ricordano Elvira Fiumi, Ettore Leoni e Domenico Giacchini. La merce veniva consegnata in casa Leoni e in casa Giacchini e da li era distribuita, per mezzo delle “staffette”, presso l’ospedale di Dovadola, per poi farla pervenire agli interessati. Un altro punto di riferimento per i partigiani era la parrocchia, dove don Biagio Fabbri consegnava ad Elvira o ad Ettore il materiale alimentare e vestiario che riusciva a racimolare. (Da una testimonianza verbale di Elvira Fiumi)
Nei pressi di Santa Sofia, nelle località Biserno, Poggio alla Lastra, Monte Marino, Strabatenza e Casa Nova dell’Alpe, erano raggruppati circa 850 uomini in 19 compagnie, scarsamente armati che facevano parte delle “Brigate Romagna”, poi Ottava brigata Garibaldi. In questa “brigata” ricordiamo: Carlo (Sergio) Fantini, detto Tribulin, di Ladino, Elvano Morgagni, detto Timocenko, Tonino Ravaioli, detto ‘E mör ad Sintël e Ulderico Gatta, detto Bibo ad Gata, di Vecchiazzano. Elvano Morgagni è la stessa persona che, nell’ottobre del 1943, ebbe l’incarico di far pervenire le armi, le munizioni e i medicinali ai partigiani di Santa Sofia. Guido Miserocchi diede disposizioni a Secondo Tartagni, detto Dino, affinché si recasse a Vecchiazzano per incontrare Elvano. Il giovane partigiano l’avrebbe atteso seduto sul parapetto del ponte sul fiume Rabbi e poi lo avrebbe accompagnato in una casa, in via Ca’ Rossa a Caiossi, per caricare sul camion di Nino Ruffilli, detto Zivilén, del materiale bellico. Il riconoscimento doveva avvenire congiungendo una moneta da cinque lire, già divisa in precedenza da Miserocchi e consegnata ai due convenuti. (Libera trascrizione da Secondo Tartagni, “La lotta partigiana nella vallata del Bidente”, Forlì 1976)
Il 12 aprile 1944, lunedì di Pasqua, circa 10.000 tedeschi e 5.000 fascisti attaccano le brigate partigiane della Romagna e della Toscana, queste, contano circa 1.500 uomini, di cui 400 sono disarmati. Nella notte fra il 7/8 aprile, benché avessero ricevuto un lancio di armi da parte degli Alleati, i partigiani furono costretti alla fuga. Così, un piccolo gruppo di loro ripararono a Vecchiazzano in casa Tribulin, dove decisero di nascondere le armi sotto una siepe. Poi ognuno ripartì per la propria destinazione. Lungo il tragitto Morgagni decise di andare a casa Sbaràia, da suo zio Bruno, mentre Gatta preferì far visita ad una famiglia di Vecchiazzano che conosceva molto bene. Fra i partigiani che lasciarono la casa Tribulin, c’era anche un infiltrato, un tale di Cervia del quale nessun sospettava. Giunto a Forlì, la spia andò al comando fascista, che aveva sede in palazzo Albertini nell’attuale piazza Saffi, dove denunciò la famiglia Fantini. L’uomo si vestì con la divisa della milizia e subito dopo ripartì sul camion della spedizione punitiva, per poi ritornare in casa Tribulin. Sergio venne subito catturato assieme ai due fratelli. Con gesto eroico, il partigiano scagionò da ogni responsabilità i familiari, che furono subito liberati. Sergio, invece, nel pomeriggio del 4 maggio 1944 venne accompagnato lungo la “callaia” della sua casa e venne ucciso, sparandogli tre colpi di rivoltella a distanza ravvicinata. Una pallottola lo raggiunse a metà della fronte, un’altra gli lacerò la guancia sinistra e un ultimo proiettile gli trapassò la gola. Intanto, la milizia fascista percorreva le strade di Vecchiazzano alla ricerca di altri partigiani. Morgagni, da casa Sbaràia, si caricò sulle spalle una fascina e fingendosi un bracciante si nascose vicino alle mura del cimitero fra l’erba di un campo. Durante la notte lo raggiunse Ulderico Gatta e insieme attesero l’alba avvolti nelle coperte. Il giorno seguente, la salma di Sergio Fantini venne portata nella camera mortuaria del cimitero di Vecchiazzano, per essere riordinata prima della sepoltura. Bruno Sbaraglia, in questa occasione, andò ad aiutare Romeo Regitori, il becchino del cimitero. Bruno incaricò poi sua moglie Ida di far bollire dell’acqua per poter lavare la salma. I due uomini erano intenti al lavoro, quando Romeo si rivolse a Bruno: “Sai, penso che questa notte ci siano stati dei partigiani anche qui vicino al cimitero, perché questa mattina presto ho sentito dei rumori…”. “Cosa dite!” lo interruppe Bruno “Era gente che mi ha rubato l’erba, non avete visto che disastro hanno combinato?”. Romeo Regitori lo guardò in silenzio. Aveva capito che era meglio tacere. In seguito all’uccisione di Sergio Fantini, una decina di giovani partigiani di Vecchiazzano s’intimorirono e si presentarono spontaneamente al comando fascista per non essere perseguitati. Molti si appellarono ad un bando di Mussolini, che garantiva clemenza nei confronti di coloro che avevano dimostrato avversione al regime, purché si fossero costituiti entro il 25 maggio del 1944. (Da una testimonianza verbale di Bruno Sbaraglia)
In Romagna, in quei giorni, ci furono ovunque momenti di grande tensione che portarono all’uccisione di ostaggi, all’incarcerazione di persone sospette, all’uccisione di innocenti nelle case, nei campi, lungo i fiumi e per le strade. Ci furono, inoltre, perquisizioni e furti, soprattutto di biciclette, requisizioni di bestiame e affissioni di bandi, che “parlavano” di morte, di prigione e di fucilazione. C’erano ovunque delle spie e delle impiccagioni nelle pubbliche piazze. Una specie di bolgia infernale dominata dalla paura e dall’arroganza nazifascista.
Nella foto - Cippo a ricordo dove fu ucciso Sergio Fantini. Il monmento è collocato nella stradina a sinistra lungo la via del Partigiano, prima della storica Selva di Ladino, partendo da viale dell'Appennino.
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