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Articolo inserito da Maurizio Ricci in data 13/04/2007
Ciclismo
letto 23320 volte in 17 anni 7 mesi e 24 giorni (3,62)
Nella storia del “Tendicollo-GP Terme Castrocaro” c’è anche lui: Otto Bennewitz…
Parlare del poco valore di un atleta non è mai positivo. Lo sport, in fondo, rappresenta prima di tutto una sfida con se stessi e, solo in un secondo momento, con gli altri. Educare i ragazzi alla pratica sportiva, cercando di aprir loro questo basilare orizzonte, sarebbe auspicabile. Purtroppo lo si fa troppo poco, sia nella scuola che fra gli operatori di sport. Non c’è dunque da stupirsi se in questa nostra sempre più scalcinata Italia, la cultura sportiva resta al di sotto di ciò che si chiede ad un paese che si spende, in ogni dove, come avanzato.
Lo sport poi, quando supera lo stadio ludico o quello intermedio, ed arriva ai confini dei livelli più tangibili, dove l’agonismo si può tradurre in professionismo, richiede sacrifici non indifferenti, a volte in grado di cambiare anche il corso più banale di vita. Il rispetto, dunque, diviene un giusto atto coinvolgente.
E’ pur vero però, che se si giunge all’elite di una disciplina, diviene razionale e giustificabile pretendere qualcosa di superiore, rispetto alla normalità di una proiezione dilettantistica. Tanto più se il teatro è una competizione che tende a ridurre ad ulteriore “crema” lo start dei partecipanti.
Il Trofeo Tendicollo Universal prima e il G.P. Terme di Castrocaro poi, proprio verso questa zolla d’eccellenza delle variabili del ciclismo si rivolgeva. Una corsa che pretendeva un impegno ed una qualità che si rendevano evidenti in maniera macroscopica, perché a crono, le capacità di concentrazione sono una componente che conta in maniera pressoché identica allo sforzo intenso di saper faticare senza riferimenti, fino a costituire un altro crogiolo di differenze fra gli atleti, ed alla fine, i distacchi, si determinano a iosa. Tanto più, in considerazione di ciò che questa corsa ha sempre presentato, ovvero un chilometraggio lunghissimo ed un percorso comunque non facile. Non a caso, qua da noi sono venuti a correre atleti che sono da considerarsi autentiche leggende del ciclismo, uomini che saranno ricordati sempre, perlomeno fino a quando l’uomo vorrà guardare il passato come una forma di rispetto e d’insegnamento e farà della memoria una qualità essenziale del proprio cammino. Atleti, che ben sapevano di correre rischi di figuracce superiori al comune e dove, a determinarle, non era solo lo stato di forma, ma pure un semplice errore nel non saper dosare le forze lungo la prova. Qui da noi, dunque, si sono accentuate le differenze fra i grandi, ed altri che pure han saputo rendersi componenti luminosi del grande romanzo del ciclismo, nonché quegli umili, che sono altresì stati funzionali e importanti nell’insieme del pedale.
Nella lunga storia di questa manifestazione si son viste cotte, distacchi abissali e tentativi poco sincronici al regolamento, per alleviare la fatica, o rendere meno pesanti le risultanze. Chi poi si presentava a questa terribile cronometro, impreparato o non idoneo ad un compito così improbo, andava verso una deriva sicura, aprendo nel pubblico le più svariate conclusioni e giudizi pittoreschi. Anche questo fa parte dello sport.
Fra i 112 corridori che han partecipato all’evento forlivese, uno in particolare mostrò tutta la sua impreparazione, sia tecnica che mentale, nonché limiti agonistici che, mi permetto di dire, lo eleggono ad ideale “maglia nera” della ventennale storia del Trofeo Tendicollo Universal – G.P. Terme di Castrocaro. L’atleta in questione, a cui mi lega una particolare simpatia, è un tedesco, Otto Bennewitz, sconosciuto al 99% dell’osservatorio internazionale (anche in molti almanacchi non lo si trova e tanti non lo rilevano come presente alla nostra corsa). Per darne un’idea ai lettori, quando scrivevo “Protagonisti del ciclismo a Forlì”, di fronte alla volontà di inserire nel volume una foto per ogni “zoom” su ciascun corridore, mi ritrovai a cercare, nel buio più completo, un’istantanea di Bennewitz. Di fronte a quelle difficoltà, pensai che una mia amica madrelingua tedesca potesse aiutarmi, attraverso gli agganci e le conseguenti interlocuzioni col suo paese d’origine. Bene, non so chi costei abbia contattato, anche della stessa Federazione ciclistica di Germania, ma sta di fatto che nessuno conosceva quel corridore!
Sono poi riuscito a bypassare il problema, ed oggi sono qui a parlare di Bennewitz e della sua giornata sulle nostre strade, corredando il tutto con tanto di foto. Troverete dunque in calce uno spezzone del suo ritratto che ho pubblicato sul libro, ed in coda, il racconto di quel 15 giugno 1969, con quella stesura particolareggiata che, nel libro, per ovvi motivi, non mi è stata possibile.

OTTO BENNEWITZ
Nato ad Hambourg il 13 marzo 1944. Passista. Professionista dal 1968 al 1971 senza ottenere vittorie.





Su questo corridore è impresa ardua costruire un profilo, non già per mancanza di conoscenza, ma per gli argomenti non di nota che il suo tratto agonistico ha partorito. Otto, era un ragazzone biomeccanicamente proporzionato, che aveva nelle robuste e forti braccia, più che nelle gambe, la sua peculiarità più evidente. Per questo, dopo risultati discreti su pista, si trovò proiettato nelle Sei Giorni (per i tedeschi di quell’epoca in particolare, la maggior attrazione ciclistica), proprio per le sue capacità di lanciare il compagno nell’americana. Ma la sua velocità e le sue accelerazioni non erano particolarmente ficcanti e, per questi motivi, anche la forza nel lancio del partner, veniva in gran parte vanificata. I piazzamenti, ed il fisico che si pensava potesse esplodere, gli valsero una discreta carriera in patria fra i dilettanti ed il passaggio al professionismo, come seigiornista, sul finire del ’68. L’anno seguente arrivò l’ufficialità del suo nuovo status di corridore, attraverso un contratto continuativo con l’elvetica “Costa Azzurra Zingonia”, una simpatica formazione con sponsor di lingua italiana, che seppe raccogliere nell’anno ‘69, oltre venti corridori di ben sei paesi diversi. Otto, oltre alle Sei Giorni, cominciò a gareggiare su strada con una certa intensità, ma non andò mai oltre la mediocrità. Nel 1970, scioltasi la Costa Azzurra, passò alla Mobel Huser, anch’essa formazione svizzera e proseguì la sua carriera in particolare di seigiornista (miglior piazzamento, un sesto posto a Colonia, in coppia con Jiri Daler). A fine anno rimase senza contratto e tentò di continuare come “isolato”, ma ben presto capì che non era il caso di “sperare”, ed a metà ’71, abbandonò l’attività.

La sua prestazione al G.P. Terme di Castrocaro.
Bennewitz, partecipò all’edizione 1969 della corsa, per puro caso e per le informazioni circa spiccate doti di cronoman, che poi si dimostrarono prive di consistenza. A parlarmene fu il compianto Giorgio Ceroni, “deux et machina” di tutte le edizioni della manifestazione e uomo a cui sarò grato eternamente, per aver cementato in me, coi suoi racconti e l’emozione che sempre l’accompagnava, tante pagine non chiare o conosciute della storia del “Tendicollo” prima e del GP di Castrocaro, poi.
“A quei tempi eravamo gemellati col G.P. di Lugano – mi disse – una corsa a cronometro uguale alla nostra. Con gli svizzeri c’era dunque un rapporto di interscambio, che significava dividere in parte le difficoltà che simili gare già allora contenevano. Per loro, un corridore di una squadra elvetica alla nostra manifestazione, significava qualcosa che ti puoi immaginare. Non so perché scelsero Bennewitz, o meglio si diceva che aveva il fisico da cronoman, di sicuro doveva essere un corridore della Costa Azzurra Zingonia, una squadra corposa, con molti atleti di varie nazioni, che non riusciva a partecipare a diverse competizioni, per ristrettezza di budget e per quei tanti ciclisti della formazione che correvano su pista. Quando lo vidi arrivare a Forlì, me lo immaginai come uno votato a finire ….dove poi finì”.
Su un percorso difficile come quello del circuito fra Vecchiazzano e Castrocaro, infatti, un seigiornista come Bennewitz, nemmeno troppo dotato, si sciolse come l’asfalto di quel caldissimo 15 giugno 1969.
Ricordo che arrivai sul tracciato, proprio a Vecchiazzano e fui subito impressionato da come l’asfalto luccicasse: il calore di quella giornata lo stava appunto sciogliendo, specialmente in alcuni tratti. Otto, fu il primo corridore che vidi e ne rimasi impressionato. I segni di una sofferenza incipiente, avevano reso rosso il suo viso, ed il contrasto con le sopracciglia e la chioma color stoppa, una raffigurazione della divisa della Roma calcio. La sua maglia color giallo ocra chiaro con fascia azzurra, oltre a rendere quel contrasto ulteriore, in virtù delle braccia anch’esse divenute rossissime, aggiungeva uno strano senso di calore al già tanto presente: chissà perché, nel guardare quel caleidoscopio in movimento, mi venivano in mente le bistecche che mamma posava in padella. E poi, la bicicletta di Bennewitz, era un vero capolavoro dell’orrendo, anche per la non certo sopraffina tecnica di quei tempi. Era nera con scritte bianche (tedesche e per me non certo ricordabili…. a parte una “W”), spartana più di tutte e con un’idea di pesantezza che ai tempi di oggi, non sarebbe proponibile per nessuno, anche di fronte ad uno scherzo. Ricordo l’attacco manubrio, la famosa “pipa”, più grossa del solito e con forme squadrate, ed il telaio tanto simile a quello della gloriosa “DEI” da passeggio, risalente agli anni venti. Ovviamente, i pantaloncini neri (come tutti a quel tempo), formavano con le gambe anch’esse rosse di Otto, uno sfondo milanista… Insomma, il Bennewitz di Germania, lo notavi per forza e, vista la postura sulla bici, alta come quella dei “civili” avventori mentre raggiungono il bar, nonché l’andatura al rallentatore, ti rendevano spontanea una domanda: “ma quello, che ci fa qui?”.
Grazie alla Lambretta di mio fratello e dopo lunghi tratti a piedi, mi portai sulla salita di Massa e qui, il Bennewitz, dopo esser stato superato con irrisoria facilità dai diversi partiti dopo di lui, finito l’effetto della curiosità, iniziò a recitare il ruolo che tanto rese famoso Ernesto Calindri, nello spot della Cynar. Già, perché nella nostra postazione in salita, appena passava il corridore annunciato e precedente l’Otto tedesco, si usciva dai margini della carreggiata e si stava tranquillamente in strada, magari alla ricerca del tavolino di Calindri, ignorando completamente “l’alfiere appassito” della Costa Azzurra Zingonia, mentre transitava con la sua andatura ed i suoi “sbuffi”, in mezzo a noi. Non ci si faceva proprio caso!
Paradossalmente, Otto, dopo esser stato doppiato praticamente da tutti, ed aver abbassato il numero in segno di resa, come corridore “fuori tempo massimo”, lo vedemmo passare stavolta ad andatura decorosa. Un tipo accanto a me, non tardò a dire: “Us sarà farmè ad arpunses, e va’ piò fort!”. Insomma, l’edizione più calda della manifestazione, grazie a Bennewitz, riuscì a togliere la seconda vocale a calore, col più “rinfrescante” colore….

Maurizio Ricci (Morris)

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