Articolo inserito da Alessandro Gaspari in data 28/09/2013
Storia
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Popolo e Territorio
Attività antropiche sulla fiumara del Rabbi
Panoramica sulle valli, sulle colline, sulle campagne che circondano il capoluogo e che lo rendono luogo di riferimento e centro di aggregazione e di coagulazione degli interessi fin dalla sua fondazione al tempo del Console Livio. La via Emilia viene intersecata dalle strade di fondovalle che seguono le fiumare dei torrenti (è magniloquente chiamarli fiumi) e che arrivano sullo spartiacque per poi ridiscendere lungo i boschi dell'Appennino toscano. Queste strade raccoglievano e raccolgono tuttora il traffico dei vari paesini e nelle loro derivazioni laterali, quelle che si chiamano strade di contro-crinale, permettevano di raggiungere le varie Badie, le torri, i conventi e i castelli disseminati un po' dovunque, ora ruderi in abbandono ma un tempo centri di vita civile o religiosa di straordinaria importanza per la comunità. In collina e in montagna le rovine almeno sono rimaste ma in pianura, complice l'assoluto bisogno di spazi abitativi aumentato al crescere della popolazione, molte sono le costruzioni completamente disperse, distrutte fino alle fondamenta, i cui materiali sono stati recuperati e reimpiegati mano a mano che si manifestava il bisogno sempre disperato di materiale a basso costo. Così troviamo case e chiese i cui muri inglobano marmi romani, mattoni medioevali e pietre tagliate di chissà quale provenienza, travi di legno di multi secolare vetustà ma che ancora svolgono egregiamente il loro compito, il tutto in un composito nuovo ordine prescritto dalle esigenze del momento; a volte sono povere case di lavoratori agricoli, altre volte sono costruzioni comunitarie con architettura un tantino più elegante o luoghi di culto, altre sono sontuose ville votate alla spensieratezza dell'estate da trascorrere all'ombra di alberi monumentali tra ronzio d'api e frinire di cicale.
Ma torniamo alla nostra Via Emilia. Nel numero precedente ci siamo infilati lungo il corso del fiume Montone proseguendo fin verso la Terra del Sole usando il ricordo e sfogliando il libro di Storia in riferimento alla località sorvolata così, a volo di uccello, citando passi e cronache importanti di uomini e regni che hanno segnato gli avvenimenti della Nazione prima ancora che nascesse fino a quando si è compiutamente definita. Adesso, passeggiando piano piano sull'argine del Montone all'ombra dei salici e allo stormire dei pioppi nella brezza mattutina partendo dal Ponte di Schiavonia sfioriamo un'altra pagina di storia sempre strettamente collegata a quanto abbiamo avuto modo di dire prima ma ovviamente complementare e connessa all'ambiente. Dapprima troviamo l'antica postazione di difesa in origine inglobata nelle fortificazioni cittadine, la torre del Giglio, ora rudere vittima della necessità di spazio per il traffico che ha ignorato la vetustà storica a tutto vantaggio delle ruote, torre su cui è sorto un ristorante e, quasi di fronte sull'altra sponda, la cartiera presso la quale scarica il canale che proviene dalla chiusa del Brullo e che fa girare la ruota Francis della piccola centrale elettrica che procura un minimo contributo ai consumi elettrici poi, sempre proseguendo, il letto di erosione del fiume si allarga fino ad arrivare di fronte al Piazzale Ravaldino da cui parte la strada che porta al fiume e permetteva alla Fornace Malta ora in disuso di ricevere e trasferire materiali. Ora fa parte dell'archeologia industriale: scheletri di capannoni e, muto testimone, l'alta ciminiera che non fuma più. Alla sua ombra le potenze dell'acqua, del fuoco e della terra si fondevano assieme per formare quel materiale da costruzione che da millenni costituisce lo scheletro delle nostre città che sorgono in una zona povera della pietra resistente ai secoli. Nel dialetto romagnolo “una pré” è un mattone sia nella considerazione popolare sia nell'accezione comune dei mastri costruttori e il cotto è presente dappertutto tanto nell'arte quanto nell'edilizia e probabilmente ogni casa sia di città che del forese ha, incastonati nei suoi muri quei mattoni. A parte le considerazioni di carattere sanitario che usano la stessa espressione per una grave malattia, nelle argomentazioni economiche della popolazione avere “e mël d'la prè” significa avere un desiderio assillante di proprietà edilizie e non ha valenza totalmente negativa ma rispecchia l'alta considerazione in cui è tenuto il possesso della abitazione quale prima aspirazione della gente; l'essere proprietario della propria casa è senz'altro un punto di merito e l'averne molte è pure un segno di distinzione. Risalendo la golena nella zona degli orti che era proprietà per la maggior parte della famiglia universalmente conosciuta per “Manfrigul” e ora appartenente in gran parte al Parco Urbano, in fregio al Canale di Ravaldino, un poco soffocata dalle case e dalle siepi ci troviamo di fronte all'oratorio del Colombano, piccola, modesta costruzione, fino a non molto tempo fa attiva ma ora non in uso per le funzioni per cui è nata: matrimoni, funerali, le messe e le novene al mese di Maggio, oasi di religiosità domenicale. Beghe tra proprietari ne hanno procurato il blocco e la totale non fruibilità anche solo della visita. Sono i guasti dei tempi e si tradurranno in guasto nel tempo inevitabilmente, con degrado anche di quel poco di valore artistico che potrebbe essere tramandato.
Questa vallata stretta tra quelle del Bidente e del Montone è stata sempre un poco emarginata non avendo diretta comunicazione con le zone toscane o umbre e, se si considera il periodo storico dalla nascita del castello di Predappio da parte di un “Conte d'Appia” che ha visto il passaggio di compagnie di ventura fino all'ultima guerra che ha visto l'impegno della popolazione contro l'invasore tedesco con notevole sacrificio di vite umane, è passata attraverso i secoli senza particolari luci o ombre e sommovimenti di popolo o battaglie memorabili. Un bagliore di cronaca si è avuto nel periodo tra le grandi guerre quando la zona ha avuto rinomanza come luogo di nascita di un certo condottiero, ma da sempre si è vissuto nella modestia del proprio lavoro, strappando faticosamente alla terra i frutti del nutrimento per cui, è risaputo, quando si ha appena il tempo per sopravvivere, null'altro si riesce a concepire. Senza l'accumulo non si possiede la riserva che libera dal bisogno e permette di esprimere le capacità intellettuali: lavoro, solo lavoro per raggiungere un minimo di benessere lungo l'arco dei secoli. Questa in ultima analisi la condizione della vita rurale!
Passeggiando naso all'aria lungo l'argine del fiume, raggiungiamo il punto di confluenza del Rabbi che si immette nel Montone alla Bertarina. Luogo ameno, già abitato nella preistoria ed ora inglobato nel Parco Cittadino e frequentato da chi vuole fare una salutare passeggiata o una sgambata in bici. Un ponte in legno collega le rive opposte e, alzando gli occhi, puoi intravedere tra gli alberi il grandioso padiglione del nuovo Ospedale che integra e completa il precedente complesso insediato negli anni '30 e, parco nel parco, offre ettari ed ettari di prati e alberi imponenti in fregio alla sponda del fiume. Passo dopo passo seguendo lo stradello sull'argine si arriva alla grande ansa delimitata a monte dal ponte che nel 1445 fu costruito in legno ma che il Rosetti nel suo “La Romagna” indica come rifatto in mattoni nella seconda metà del IXX° secolo. Un tempo rappresentava l'unica strada di comunicazione con la frazione di Vecchiazzano ed ora, debitamente restaurato e ripulito fa parte della più bella passeggiata dei dintorni. Qui puoi osservare il breve volo di un fagiano, ti può attraversare la strada una biscia d'acqua e non è raro vedere i salti acrobatici dei caprioli o intravedere tra i cespugli la sagoma di un cinghiale o quella di un istrice: ne sapeva qualcosa il cane di un mio vicino che, assalito l'animale riuscì a stento a fuggire, anche se trasformato in una specie di puntaspilli, tra guaiti strazianti. Incredibilmente le sere d'estate si possono ascoltare i gracidii delle rane che, da quando la qualità dell'acqua è risalita, hanno ripreso a popolare le rive. L'assoluta mancanza di traffico molesto, pace e aria pulita ne fanno la meta ideale per una camminata, col cane o senza, che ti trasborda, nel giro dei cento metri necessari a lasciare il caotico traffico di Viale dell'Appennino, alla pace della Via di Ponte Rabbi superando il plurisecolare ponticello sul Canale di Ravaldino. Anche questo ha una storia da raccontare: pare che il Generale Garibaldi abbia sostato per il riposo di una notte nella casupola attaccata al ponte durante la “Trafila” per cui casupola e ponte sono sempre stati conservati e protetti, tuttavia altre fonti indicano il passaggio al ponticello della Bertarina, trecento metri più a nord. Ricordo che durante il grande inverno del 1953/54 venivano tutti i giorni i pompieri a spaccare il ghiaccio sotto il ponte per impedirne il crollo che avrebbe isolato completamente la frazione di Vecchiazzano e impedito il passaggio della corriera, la SITA, che portava in centro. Io abito a non più di cento metri dal ponte per cui, nelle giornate con lastrone di ghiaccio di venti centimetri, grande freddo e nevone, nelle quali era giocoforza imbarcarsi sull'autobus, aspettavo al calduccio il rumore del mezzo che sferragliava con le catene verso la frazione e, conoscendo i tempi, dopo cinque minuti partivo per arrivare alla fermata giusto in tempo per salire sul bus. Ma fin quando era possibile la macchina regina della strada era la bicicletta: estate o inverno, acqua o sole sempre a pedalare e non importava se il mezzo era un catenaccio rugginoso e senza cambio di velocità. Io ho portato i calzoni corti fin verso i quattordici anni, così come la maggioranza della mia generazione ha fatto ed era la normalità, quando il pelo delle gambe ormai denunciava l'età per cui scattavi di categoria: da ragazzino a giovane studente con diritti e doveri relativi. Ma eri temprato, gambe forti, mai un raffreddore: mica come adesso che se spalanchi un armadio i bambini prendono un malanno tanto sono premurosamente coperti! Ma non divaghiamo e proseguiamo nel nostro viaggio per i dintorni. È interessante notare che il vecchio ponte è stato costruito ad arte là dove finisce il substrato sabbioso e comincia ad apparire la roccia sedimentaria. L'arenaria a lastre, sottili, facilmente staccabili e friabili, che a monte del ponte il fiume trascina e frantuma levigando i ciottoli e arrotondandoli. Sono due mondi: a monte i sassi, a valle la sabbia, separazione netta, a monte sciacquio di corrente tra i sassi, a valle silenzioso scorrere di acqua tra le erbe delle rive, di tanto in tanto un incresparsi in cerchio della superficie, tipico della carpa che da sempre abita queste acque o un silenzioso e sinuoso attraversamento di una biscia d'acqua. La mia casa è a un tiro di schioppo dal ponte e l'ambiente fluviale, quando eravamo molto ma molto più giovani, era il terreno di gioco preferito nonostante i continui richiami dei genitori che mettevano in guardia sulla pericolosità del gorgo sotto al ponte. Effettivamente c'era una bella profondità e ricordo anche che da sopra si vedevano nuotare pigramente molte carpe di grandi dimensioni che, nonostante i nostri sforzi non siamo mai riusciti a catturare: probabilmente sono morte di vecchiaia. Altra meta di pomeriggi estivi era poco più avanti una spiaggetta, sotto una scarpata di tenera arenaria nella quale durante la guerra era stato scavato un rifugio che nessuno di noi, nemmeno i ragazzi più grandi aveva mai avuto il coraggio di esplorare, stante anche la mancanza di attrezzature adeguate e nel timore di reprimende terribili vista la pericolosità. Già siamo rimasti shoccati non molti anni fa alla notizia che nel rimaneggiare il vecchio ponte sul fiume è stato ritrovato un deposito di bombe sul quale sono passati migliaia di mezzi anche pesanti e di ignare persone, fortunatamente senza conseguenze.
Due o tre sentieri carrabili venivano usati dai carrettieri (i baruzēr) per caricare ghiaia di fiume o sabbia di non eccelsa qualità ma per i tempi correnti andava benissimo: il mulo o il cavallo trainavano a furia di frustate carichi immani e il carrettiere si attaccava volentieri alla bottiglia. Gente senza età, consumi calorici strepitosi e forza erculea, direttamente proveniente dal medioevo e rimasta ferma nel tempo, sepolta solo dall'avvento del camion. Ma riprendiamo il nostro percorso. Ca'Ossi è la prima frazione che si incontra percorrendo Viale dell'Appennino: il nucleo originale era formato da un microscopico gruppo di case allineate in fregio al canale di Ravaldino e appoggiate le une alle altre a partire dal ponticello sul canale con un unico palazzo, ora modificato, appartenuto ad una famiglia borghese ma poi passato di mano e finiva con la bottega del fabbro, un antro fumoso, polvere e scintille dappertutto ma di un fascino incredibile. Conoscevo il fabbro, che era in grado di riparare qualsiasi cosa o di ricavare un capolavoro da un informe pezzo di ferro. Pare che il palazzo fosse conosciuto come “Cà dagl'Oss”, nome successivamente modificato nel vernacolo in “Caiossi”essendo nella disponibilità della famiglia di un macellaio che aveva fatto fortuna e prima ancora di proprietà di un signor Pasqui primo fabbricante in Italia di una birra ottenuta con tutti ingredienti italiani, ma di questo si parlerà più sotto.
Sull'altro lato della strada si sviluppa quello che è nato nel ventennio come Villaggio Arnaldo Mussolini quasi ad imitazione di una centuriazione ma molto più in piccolo: case squadrate, nello stile dell'epoca, coi soffitti autarchici di arelle, a quattro unità abitative ognuna col suo quarto di lotto di terreno più che sufficiente per un orto, strade a croce, ogni isolato di quattro lotti. Molte sono state modificate ma molte sono rimaste tal quali e nel complesso l'architettura generale si riconosce ancora molto bene. Una curiosità già accennata sopra: alla metà del IXX° Secolo esisteva a Caiossi (Dizione originale di prima che l'eleganza della parlata imponesse l'uso di Ca'Ossi) una fabbrica di birra , che imbottigliava il prodotto finito in bellissimi contenitori in ceramica e utilizzava la materia prima direttamente coltivata in loco sui terreni prospicienti la golena fluviale sfruttando la possibilità di utilizzare le acque del canale per la coltivazione del luppolo che ha bisogno di un notevole livello di irrigazione. Ora la fabbrica è scomparsa e ne rimane solo il ricordo in una bella pubblicazione di un discendente della famiglia del birraio dell'ottocento. Peccato perché i ricordi non si bevono e mi sarebbe piaciuto poter sottolineare la supremazia del prodotto romagnolo, oltre che nel campo dei vini, anche in quello delle birre! Passiamo oltre. Viale dell'Appennino in omaggio all'allora capo del governo venne sistemato nel ventennio da strada di campagna a viale alberato, asfaltato fino a Predappio, di comoda percorribilità. Segue il percorso del Canale fino a S.Lorenzo, poi segue il letto del Rabbi a mezza costa per il resto del percorso. L'acqua è un bene fondamentale per cui tutti i paesini delle nostre valli sono a cavallo di un fiumiciattolo o di un torrente: dovunque tu abiti devi sentire l'acqua scorrere e se non c'è in natura tu la devi portare. Il gorgoglio dell'acqua che scorre e un suono rassicurante e riposante allo stesso tempo: significa che hai a disposizione la forza vitale dell'acqua per le piante, per le bestie, per la forza motrice, per la pulizia, per ogni altro bisogno. Il canale di Ravaldino è il canale dei mulini da almeno ottocento anni. A cominciare da quelli posti in città ce ne sono almeno sei o sette (forse sono di più) di conosciuti lungo il percorso dalla chiusa di Calanca in giù. Il Mulino del Fico potrebbe essere il più antico rimasto, ora completamente restaurato pur avendo perso le sue funzioni originali dopo aver lavorato ininterrottamente per più di otto secoli. Parlando di mulini siamo quasi arrivati a S.Martino in Strada ma prima conviene spendere due parole per ricordare Villa “La Gesuita” situata poco oltre l'incrocio con via Ribolle, immersa nel suo ambiente originale che, pur ridotto allo stremo e nonostante l'accerchiamento dei palazzi e l'erosione delle sue pertinenze, non ha perso il fascino del suo parco, ricco di alberi secolari, ombre e fresche fontanelle. Ora è di proprietà della Parrocchia San Pio X che l'ha avuta in eredità dal celebre tenore Angelo Masini il quale utilizzava la Gesuita come residenza di campagna al centro delle sue proprietà agricole che allora erano notevolissime. Un tempo vi si tenevano ricevimenti, concerti e belle serate, ora la carità cristiana con opera meritoria se ne serve per ospitare persone non autosufficienti e in condizioni di estremo bisogno. Una volta all'anno si può frequentare e si può passare all'ombra odorosa di tigli secolari un pomeriggio. Quasi di fronte all'ingresso della Gesuita, sull'altro lato della strada proprio in riva al canale si erge una di quelle cellette votive, comuni lungo le strade fino a quando non sono diventate intralcio all'allargamento delle sedi stradali, poste ad una distanza l'una dall'altra pari allo spazio percorribile a piedi recitando due o tre o anche quattro rosari di preghiere; salvo alcune eccezioni, vedi la “Zaltena dal pasar” (la celletta dei passeri) in zona Romiti e dotata di alcune qualità artistiche, non sono capolavori d'arte ma sono il frutto della devozione popolare e generalmente si salvano dal vandalismo che regna ovunque, salvo disastri stradali, come è capitato una cinquantina di anni fa a Vecchiazzano. Genericamente sono denominate “Maestà” ma in dialetto più comunemente sono “Zaltén” (Cellette) e non manca mai un fiore o una candelina in ogni stagione. Poi nel mese di Maggio, se lo spazio antistante lo consente, tutte le sere c'è novena e per tutto il mese rimangono in permanenza le seggiole piazzate ad ospitare preghiere e chiacchiericcio immancabile che fa comunque parte del sentimento popolare utilissimo a rinsaldare legami sociali e rapporti di vicinato. Nei centri abitati l'uso dell'immagine sacra è comunissimo, santi e madonnine sono inseriti nelle nicchie nei muri delle case e nelle periferie non mancano le immagini murate sopra il portone di casa con relativa lucina votiva: un tempo la Madonna proteggeva la porta di casa e S. Antonio la stalla. Ma torniamo a S. Martino in Strada, altra frazione lungo le rive del Rabbi che ora cominciano a diventare alte dato che ci avviciniamo alla collina. Secondo Emilio Rosetti, ma io non l'ho mai sentito nominare così se si eccettua il nome del Santo titolare della parrocchia si S. Savino in Schiedo, il fiume si chiama appunto anche Schiedo, nome che non so da cosa derivi ma se così riferisce Rosetti ci credo.
veduta di Vecchiazzano sotto la neve (Foto Dino Spighi)
Sulla riva sinistra, quasi di fronte, si stende il villaggio di Vecchiazzano che, specialmente visto da Viale Appennino in estate con tutto il rigoglio del verde è una cartolina: macchia rosso-ocra dei tetti, bianco delle case radunate attorno al campanile che svetta elegante, come sfondo la campagna e la corona delle prime colline, è proprio l'immagine che ti aspetti guardando un quadro con la rappresentazione di un villaggio; d'inverno poi pare una cartolina natalizia: dal bianco spicca il gruppo di case raccolte attorno alla chiesa, ognuna col suo candido cappuccio e gli alberi dei giardini carichi di neve. Unica nota stonata lo scatolone di cemento della Casa di Riposo, utilitario indubbiamente ma purtroppo brutto, nato per raccogliere umanità al tramonto. Questa zona della campagna è uno dei luoghi del mio trascorrere esistenziale e mi piace moltissimo: è la quiete dell'isola felice, il rifugio che esclude il frenetico andare. Peccato che anche qui il traffico tenti di rovinare tutto: ti sposti di poche centinaia di metri e ti ritrovi nel caos di Via del Partigiano: le auto sono marchingegni prepotenti che hanno bisogno di posto, tanto posto e che, se costrette in poco spazio, protestano violentemente con molto rumore e tanta puzza per cui ecco sorgere parcheggi immani, strade sempre più larghe e rotonde dappertutto. Territorio sottratto al vivere pacato, alla calma della campagna: altro che stendere letame e piantar viti, si stende asfalto e si piantano paracarri e segnali stradali. La nuova Via del Partigiano convoglia orde di automezzi rumorosi in determinate ore del giorno, poi si calma ma c'è una differenza macroscopica da quando si arrivava a Terra del Sole su un viottolo polveroso su cui transitavano biciclette, qualche motorino e, forse, due o tre macchine al giorno. Ti fermavi a piluccare quattro ciliege, un grappolo d'uva, un fico, due azzeruole (i “pumariel”), o un grappolo di frutti del biancospino che in dialetto si chiamano “sarzöl” molto apprezzati anche dagli animali selvatici, a seconda della stagione. Adesso al massimo ai bordi raccogli bottiglie di plastica e lattine di birra. La bolla di pace che un tempo includeva tutto il visibile intorno si è ridotta enormemente e tremola anche a seconda dell'orario. Tutto cambia, bisogna adattarsi anche se a malincuore. È interessante notare che ai tempi in cui il Rosetti scriveva, la parrocchia di S. Nicolò in Vecchiazzano comprendeva anche Caiossi arrivando alla Bertarina, senza distinzione territoriale. Pare anche che il toponimo abbia derivazione etrusca ma nulla di certo. Oggi Vecchiazzano è sede di un polo ospedaliero di eccellenza che nasce negli anni '30 e continua tuttora ad essere completato e ammodernato, inoltre la frazione è divenuta un quartiere satellite senza però i macroscopici errori fatti nelle grandi città. Perciò niente palazzoni invivibili, solo unità piccole, case abbastanza disperse nella campagna, orti e giardini ben curati, l'asilo-nido, un centro commerciale non troppo invadente, un paio di forni e di macellerie, persino la pescheria con un bellissimo banco di pesce sempre freschissimo, tutti i servizi alla persona di discreto livello: la modernissima farmacia, la scuola elementare, l'ampio centro sportivo, la parrocchia e la casa di riposo, gli altri centri di aggregazione da cui nascono le varie iniziative atte a raccogliere gente in vena di farsi un bel piatto di cappelletti o di polenta col cinghiale oppure, se sportiva, una bella cicloturistica o una podistica oppure una partita a calcetto o tennis. Risalendo per la campagna lungo le tre o quattro strade che arrivano alle colline le case si diradano trasformandosi in ville con ampio parco e vista panoramica della pianura romagnola. Sono strade percorribili in bicicletta senza troppa fatica con un minimo di allenamento e difatti la passione per la bici regna sovrana (ognuno di noi minimo ne possiede tre), le strade verso collina si prestano, fondo buono, scarso traffico, ce n'è per tutti i gusti: sole, ombra, salita, salitella, anche salita dura, discesa spericolata, rettilinei per i fondisti; puoi ridiscendere verso Vecchiazzano oppure verso Castrocaro o verso Predappio a scelta. Qui è nato negli anni a cavallo del '60 il Trofeo Tendicollo che, per chi si ricorda, era una gara importante che vedeva la partecipazione di tutti i migliori corridori del tempo e adunava un pubblico folto e appassionato. Ricordo che, avendo pochi soldi in tasca, si faceva di tutto per non pagare l'ingresso al circuito attraversando impavidi campi e siepi. Adesso sono cose che non si fanno più, abbiamo scoperto che, prostata permettendo, la bici è meglio utilizzarla per cui si vedono in giro frotte di cicloturisti che inforcano tecnicissimi mezzi da molte migliaia di euro perché l'apparenza conta moltissimo: magari fan solo quindici chilometri ma vuoi mettere farli su un mezzo invidiato da tutti e con divise che costano più di un vestito di marca! Da casa vedo passarne a frotte, gruppi di sessanta, settanta persone, richiami a voce alta, risate alle battute, fischiare caratteristico delle catene e degli ingranaggi, scatto secco dei cambi di velocità. Vorrei tanto essere con loro ma non si può, purtroppo!
Non conosco la composizione del terreno ma si è sempre detto “A Vciazân la tëra la j'è rossa” intendendola con ciò poco buona per l'agricoltura ma “Bóna pr'al pignatt” e non so se durante l'ultimo secolo gli emendanti abbiano o meno cambiato la situazione ma vedo che se l'orientamento della produzione è rivolto al vigneto e anche all'ulivo quella certa vocazione risulta conveniente e, se si esclude lo spazio occupato dalla zona artigianale, la campagna prevale ancora. Pare incredibile ma all'inizio dell'estate è ancora possibile di sera venire ad ammirare sui campi del grano in fioritura il tappeto scintillante delle lucciole che in pianura sono state sterminate dai veleni.
Dopo questa divagazione recuperiamo Viale dell'Appennino e proseguiamo osservando quello che si offre alla vista: passata la Gesuita e sempre seguendo il gorgogliare del canale di Ravaldino si supera il Mulino del Fico e, passando davanti ad una bella villa settecentesca con classica torretta, di proprietà di una famiglia forlivese e seminascosta dalla vegetazione si arriva al villaggio di S. Martino in Strada. Nel suo impianto generale probabilmente è rimasto come alle origini, tutto allineato lungo la strada che portava in Toscana, con la chiesa probabilmente sorta sopra le rovine di altre più antiche costruzioni dato che il sagrato è il punto più alto della zona: bisognerebbe scavare sotto ma la presenza di una banca, la canonica e altri edifici lo impediscono. La strada, sempre secondo il Rosetti e altre fonti, si chiamava “Via Romipetarum”. In origine esisteva anche un castello ora totalmente scomparso di cui resta solo, forse, un accenno nel nome di una stradina che si chiama “Via del Bastione”. Con lo stesso nome esisteva anche un mulino ora scomparso sulla sponda del canale che scende dalla Chiusa di S.Lorenzo. Appena passata la chiesa di S. Martino la strada si biforca: via Monda porta verso Meldola, Viale dell'Appennino prosegue verso Predappio sempre seguendo il canale. È interessante fare una piccola deviazione verso sinistra scalando le prime rampe della strada che porta a Rocca delle Caminate per arrivare alla chiesetta di Collina dedicata a S. Apollinare e sorta sulle rovine di un antico castello della famiglia Orgogliosi. Il Parroco ora scomparso curava un piccolo osservatorio astronomico e una stazione sismografica; ora è in stato di semi abbandono, si dicono messe solo su intervento del parroco di S. Martino, ed è un vero peccato che nessuno si occupi più di stelle perché la posizione è molto bella. A S. Lorenzo, nella chiesa esiste una lapide romana che parla di un “Sapinio Faustino” di probabili origini Sapinie a testimoniare la vetustà dell'insediamento. Al ponte di Calanca di S. Lorenzo c'è la chiusa che dà origine al canale che ha fornito per secoli la potenza necessaria alla macinatura della farina che ha permesso a intere generazioni di forlivesi ed ora anche di turisti di masticare con gusto pane, piadina, ciambelle e succulenti paste asciutte e cappelletti. Per inciso segnalo che il nonno di mia moglie ha svolto l'incombenza di “chiusarolo” per circa quarantanni del secolo scorso regolando la chiusa senza lasciare a secco i mulini e senza provocare alluvioni. Prendiamo S. Lorenzo come confine del forese e torniamo indietro per la via Monda seguendo i passi dei pellegrini che si recavano a Roma appunto sulla “Via Romipeta”. Pare che questa via, ma la faccenda è molto controversa per via delle discordanze tra Tito Livio e Strabone, corrispondesse ad una seconda “Via Flaminia” che doveva unire Bologna con Arezzo passando attraverso le nostre colline. Pare inoltre, ma non so con quale fondamento, che questa corrispondesse anche alla “Via Gallica” seguita da Brenno per andare ad assediare Roma e usata pure da Annibale al tempo in cui scorrazzava per l'Italia con elefanti al seguito, dai Longobardi per distruggere Forlimpopoli e poi da tutti quelli che invasero e saccheggiarono l'Italia avendo cura di usare le strade più comode dato che esistevano già. Quello che è certo è che da qui sono passati tutti e ognuno ha lasciato un segno del suo passaggio, non fosse altro che nel linguaggio. Prova ne siano le radici nelle molte lingue europee di tantissimi dei nostri vocaboli dialettali. La Romagna, almeno in questa parte, è diventata un crogiolo di razze ed è rimasto qualcosa di ognuna, rispecchiata nei tipi fisici quanto mai vari della popolazione. A un certo punto la strada sale sulla prima gobba collinare (la rapëda ad Malguaj) per poi ridiscendere a valle dopo pochi chilometri correndo su un promontorio che a sinistra si affaccia sulla pianura e a destra declina su una serie di piccole valli abitate da tempi immemorabili, con buona terra e ricchezza di acque. Dove inizia la salitella della Monda terminava quel lembo di foresta che ora non esiste più denominato appunto “Selva della Monda” e finito sotto la scure dei disboscatori per recuperare terra coltivabile. Ivi sorgono due ristoranti di un certo nome uno dei quali usufruisce dei locali di una villa settecentesca e resterà nei miei ricordi poiché un sacco di tempo fa vi si è svolto il mio pranzo di nozze. Salendo lungo le strade di queste collinette si gode di un panorama di ampio respiro: sulla destra Bertinoro, sulla sinistra il castello di Monte Poggiolo che delimitano la visuale sulla pianura col mare sullo sfondo che luccica al sole. Questa è una zona che mi piace moltissimo: la vista delle vallette ondulate ricche di vegetazione è molto gradevole sia in estate sia in inverno con le macchie scure degli alberi e il bianco dei campi e con i camini delle case che fumano. Moltissime case di questa che ormai potremmo definire periferia di Forlì possiedono un camino in efficienza: l'anonimato del riscaldamento centralizzato ancora non ne ha sepolto l'uso. Un tempo il bruciare la legna ricavata dagli alberi abbattuti dai fortunali consentiva di tenere in ordine le sponde dei fiumi il ché è fondamentale per evitare piene e inondazioni; inoltre chiunque ne avesse bisogno tagliava erba, canne, cannella palustre e rami facilitando in tal modo il defluire delle acque. La gente di qui ha radici profondamente piantate nella campagna e ancora il lavoro del contadino gode di una considerazione almeno pari a quella di una qualsiasi altra occupazione e assicuro che conosco tanti che sono tornati ai campi anche se con tanto di laurea in tasca. Proprio dove inizia il declivio che riporta a valle, località Farazzano, un tempo sorgeva un convento, forse “Ospitale” per pellegrini, ora semplice casa colonica. Da li si vede il complesso di Scardavilla, convento Camaldolese del 1609 ora proprietà privata e in stato di abbandono ma che conserva ancora un modestissimo lembo di bosco autoctono un tempo curato dai frati e ora protetto come biotopo e in carico al comune di Meldola. Sul complesso aleggia una leggenda che ha radici secolari e a cui ancora in molti credono: la pignatta dei Marenghi. Sarebbe stata sepolta dai monaci in fuga per evitare una razzia e poi mai più ritrovata. Chi dice che è sepolta nel bosco, chi dice che è sepolta sotto il convento, le voci si incrociano ma i risultati delle ricerche sono pari a zero: dei marenghi nessuna traccia nonostante lo zelo e le tecniche avanzate di esplorazione. Ora casa padronale e convento sono di proprietà privata e nessuno abita nel sito ma io conoscevo un poco la famiglia che da generazioni ha abitato il luogo e posso assicurare che di arricchimenti improvvisi non c'è stata ombra e che se oro c'era questo stava nel frutto della fatica che produce grano, vino, olio, ortaggi e carni e frutta e miele. Terra buona ma che richiede tempo, fatica, sudore e voglia di fare.
Affacciati alla vallata del Bidente ci fermiamo, con negli occhi la sagoma dei colli di Bertinoro, la torre lontana di Teodorano e quella più vicina della Rocca delle Caminate, negli orecchi il suono di una campana che non suona più e il tintinnio di marenghi soltanto sognati e mai accarezzati e in gola il sapore di un dito di Albana e di un boccone di ciambella.
Commento inserito da
Giuseppina Fabbri in data 29/09/2013 09:09:44
www.vecchiazzano.it/p.asp?p=1562&i=1277
Mi piace molto. Io però abito lungo il corso del Montone e leggerei volentieri l'articolo che dice di aver già scritto su questa valle. Dove posso trovarlo? Grazie.
Commento inserito da
Alessandro Gaspari in data 30/09/2013 12:20:36
www.vecchiazzano.it/p.asp?p=1562&i=1280
Cara Giuseppina, ecco qui il testo e le foto che mi hai chiesto:
POPOLO E TERRITORIO - IL RINASCIMENTO DELL'UOMO
APPUNTI DI STORIA (Ambizioso tentativo di emulare uno Storico di razza: Don Enzo Donatini)
Da questo 2011/12 anniversario dell'Unità d'Italia, seguendo un filo logico che ci porta a spaziare lo sguardo oltre le mura cittadine dopo aver abbozzato un ritratto del territorio racchiuso dalle Porte e storicamente suddiviso in Quartieri, proveremo a delineare un'immagine dei luoghi e degli avvenimenti più significativi del territorio circostante nel tentativo di trovare quel collegamento che ci consente di non perdere la memoria del passato, delle cose vissute e di quelle che incidono sulla vita delle nostre comunità. Attraverso la Romagna è passata gran parte della Storia Patria, sono nati e vissuti personaggi che hanno modificato il corso degli eventi sia locali che a livello nazionale o addirittura internazionale; nell'imperturbabilità della loro grandezza guardano il trascorrere dei secoli monumenti alla solenne celebrazione dei protagonisti, alla gloria della fede, all'operosità di interi popoli, opere destinate a stupire ancora molte generazioni. Per quanto potrà durare la pietra tanto durerà la solidità del Ponte di Tiberio o delle mura di Sarsina; il tempo indubbiamente sgretolerà i mattoni del Campanile di S.Mercuriale e del Castello di Monte Poggiolo o della Rocca di Ravaldino ma non riuscirà a distruggere tutto, prova ne siano i ritrovamenti preistorici della Bertarina o di monte Poggiolo attestanti la presenza del fuoco, elemento effimero ma reale nelle tracce degli insediamenti umani, di cui sono rimasti comunque i segni, oppure, pur con tutta la testarda volontà demolitrice applicata metodicamente dall'uomo che è il più distruttivo degli agenti, i residui della antica Selva Lituana che ancora resistono a tutti gli attacchi finora perpetrati dicendoci che quello che ora è il modesto boschetto di Ladino un tempo era il paesaggio prevalente in tutto il territorio. Selva, palude, canneto, fiumi dispersi sul territorio a creare marcite e habitat per svariate forme di vita selvatica finché non si è provveduto alla bonifica, al prosciugamento per poter esercitare l'agricoltura. Questo sappiamo dai ritrovamenti e dalle antiche cronache. Prima ancora il ricordo è stato affidato unicamente alla terra: cocci di ceramica primitiva, punte di frecce, fondi di capanna, fori per i pali, ossa rosicchiate e bruciacchiate sono tutto quel che resta della memoria preistorica. Molto aleatorio, molto frammentario ma significativo. Vuol dire che si può cercare ancora, che c'è speranza di rintracciare altra documentazione di quel passato non scritto, che si possono creare altri collegamenti, che si può completare, aggiungendo faticosamente un tassello per volta, un percorso di congiunzione del vissuto preistorico con la protostoria poi con la storia scritta e documentata. Sempre rimarrà memoria del passato se qualcuno provvederà di tanto in tanto a ravvivarla, a rilanciare nel futuro il ricordo, a ricucire strappi, a riattaccare schegge spezzate, a strappare erbacce da un muro diroccato, a insegnare ad un'altra generazione come si riconosce da un sasso informe quello che era in realtà un raschiatoio o una primitiva macina a mano per cereali, tappa inventiva fondamentale nel cammino del progresso, oppure a non meravigliarsi anzi a spiegare che se si trovano fossili marini alle quote collinari vuole dire che Bertinoro era sulla spiaggia e che l'orografia è profondamente cambiata e conviene documentare e trasmettere le tracce al futuro per non perderle.
Terra del Sole, Palazzo del Capitano (foto Dino Spighi)
Il progresso è basato sul buon uso delle informazioni raccolte, documentate ed utilizzabili per elaborare modifiche vantaggiose: i fratelli Wright hanno fatto volare il primo aeroplano quando si sono accorti che tutti i tentativi di imitare gli uccelli erano perfettamente inutili e che l'approccio doveva essere un altro; dalle primitive ruote da mulino siamo passati alle più efficienti turbine e l'acciaio è migliorato quando invece della legna si è usato il carbone per fonderlo. Ma il progresso è segnato anche da momenti negativi marcati da insuccessi o tentativi costosi in termini di vite spezzate, di risorse distrutte, di arretramento anziché avanzamento nel progresso ma anche questo fa parte del vissuto. È doloroso affermarlo ma le guerre hanno fatto compiere giganteschi balzi in avanti: senza le V2 non saremmo a scorrazzare tra i pianeti, senza i sottomarini non si sarebbe potuto esplorare il fondo marino, senza radar quante vite si sarebbero perse. Eppure sono tutte invenzioni costate sacrifici enormi, risorse distratte al comune e ordinario vivere quotidiano delle comunità senza la cui fatica nulla si sarebbe potuto realizzare. Di queste comunità, almeno di quelle che gravitano attorno alla nostra città tentiamo di tracciare un abbozzo di ritratto riferendoci a quello che rimane, tangibile sotto il sole oppure a futura memoria, emergente dai libri, dalle cronache o dai ricordi. La prima tappa, il primo logico passo è quello che si può compiere seguendo la fiumara del Montone. Il Ponte di Schiavonia è lo storico collegamento della città verso Ovest: su di esso passa la Via Emilia che si dirama immediatamente nella Via Consolare e nella Via per Firenze seguendo il corso del fiume, ora ridotto quasi a torrente ma un tempo più ricco di acque. Seguiamo il fiume. Passata la chiesa dei Romiti col vicino ma non più esistente Ospitale dei Templari il fiume raccoglie le acque del Rabbi, formando una lingua di terra su cui ora sorge il grande Ospedale Pierantoni nelle cui vicinanze si sono ritrovate tracce di fondi di capanne (Bertarina). Il luogo per la sua salubrità ha visto sorgere nel ventennio un grande complesso ospedaliero dedicato alla cura della tubercolosi e che ora è il polo di una medicina di eccellenza rinomato e conosciuto ormai in tutto il mondo. Nei dintorni molti sentieri congiungono la Statale con le rive del fiume: sono le carraie che hanno visto andare e venire i birocciai che prelevavano ghiaia dal letto del fiume. Alte ruote cerchiate, stanchi muli o cavalli tra le stanghe, col somaro di lato ad aiutare il tiro “e sumar a blanzén” fischi, urla, schiocco di fruste, bestemmie a volontà e il fiasco del vino che spunta dalla sporta sotto il sedile. Mestiere duro quello dei birocciai: la ghiaia richiede fisico massiccio, mani come il cuoio per via dell'uso del badile al carico e allo scarico della ghiaia, sempre con la frusta pronta ad esigere impietosamente la fatica massima dell'animale al tiro, ma svelti a spingere il carro con le spalle se il limite veniva superato. Hanno sudato il pane fino quasi al 1960 poi benne, camion e cave meccanizzate hanno fatto sparire la categoria: cavalli, muli e asini sono finiti dal macellaio, i “baruzër” sono diventati camionisti e niente fiasco del vino! Ma proseguiamo seguendo il fiume. Tra S.Varano e Villa Rovere in una cava di ghiaia è venuta alla luce una stele etrusca, testimone muta della nostra proto storia, poi altri reperti qua e là di epoca romana, tutti segni di frequentazione di questi luoghi mai rimasti deserti nel corso dei millenni. Passata la chiusa del Brullo a Villa Rovere (La Rôvra), posto di frontiera e dogana pontificia fino all'unità d'Italia, che si localizza facilmente grazie alla struttura della chiesa di S.Maria della Rovere o S. Pietro in Arco visibile da lontano, sull'altra sponda si spazia per una pianura alluvionale di discrete dimensioni che termina a monte sui primi declivi collinari e a valle sulle anse del fiume che passano nei pressi dei resti della Selva di Ladino (la Siba ad Ladèn). Boschetto di ora modeste dimensioni mantenuto in vita con le cure del caso come biotopo protetto dal momento che rappresenta tutto ciò che rimane della Selva Lituana. Ripida sponda dal sottobosco impraticabile, stormire di fronde ad ogni refolo di vento, richiami dei selvatici ancora presenti, frusciare di arbusti ad ogni passaggio di serpe, un tempo si favoleggiava di strane creature da non andare a infastidire né di giorno né tanto meno di notte; in fregio al bosco ora esiste un'attività di agriturismo, primo timido tentativo di sfruttare il fascino del bosco primigenio mediante la evocazione del ricordo ancestrale della “Siba”. La piana alluvionale presenta quello che rimane di una centuriazione databile all'epoca di Roma, alla distribuzione delle terre ai veterani: con una suddivisione regolare adattata al luogo una strada taglia la piana e anche il declivio: strada a fatica ora riconoscibile dato lo sfruttamento intensivo del sottostante strato di ghiaia alluvionale utilissimo in edilizia ma che ha portato allo sconvolgimento del terreno anche se poi bene o male lo strato superficiale coltivabile è stato ricomposto. Dallo stradone che ora porta diritto a Castrocaro, proprio al margine della piana, si scorge l'agglomerato di Ladino, quattro case e la chiesa; la torre o castelletto che dir si voglia non si evidenzia più, trasformato in casa colonica. Spicca il palazzo nobiliare dei Paolucci, casa di campagna per passare l'estate. Al posto della larga strada asfaltata che ora permette di arrivare in un lampo a Castrocaro fino a circa quaranta anni fa c'era un viottolo polveroso ma bellissimo da percorrere in bicicletta, anche se sempre a rischio di forature. Ricordo che ai lati c'erano siepi di more, filari di uva, alberi di sorbe e azzeruole e poi nespole e fichi di molte qualità e nessuno protestava se ti fermavi a raccogliere e mangiare qualcosa. Ricordo un punto che a cercare bene è ancora riconoscibile, dove un fico cresceva spuntando da sotto un ponte e faceva fichi che non ho mai più trovato in giro, lunghi lunghi e dolcissimi Proseguiamo risalendo lo sciabordio delle acque del Montone sui sassi. Queste sono le onde che scendono dai monti lungo il fiume “...che si chiama Acquacheta suso, avante / che si divalli giù nel basso letto, / e a Forlì di quel nome è vacante, / rimbomba là sovra San Benedetto...” (Dante – Inferno - XVI) Questo fiume ha visto nascere autori di pagine di letteratura immortale, Dante e la Divina Commedia, Franco Sacchetti e le sue Cento Novelle; ha visto transitare l'umanità più disparata: le Legioni Romane armate e poi Longobardi, Goti e Visigoti, contrabbandieri, invasori, pellegrini, ambasciatori paludati e contadini con l'asino e il carretto, Francesi, Spagnoli, Lanzichenecchi, soldati napoleonici e austriaci; ha visto Garibaldi in fuga, ha visto unificarsi l'Italia; ha visto il fronte, le eroiche azioni partigiane e gli orrori della guerra, ha visto la Liberazione e lo sviluppo di condizioni di vita finalmente più consone all'uomo. Testimone di buona parte di questi avvenimenti, dal 1565 in qua incredibilmente intatta nonostante la valanga di accadimenti potenzialmente distruttivi, ai primi accenni dei rilievi collinari e in fregio al fiume sorge e si conserva la città fortificata di Terra del Sole
LA CITTA' DEL SOLE
Anno 1564, mese di Gennaio. Il Granduca Cosimo I ordina che si dia inizio ai lavori di costruzione di una cittadella difensiva ai confini della Romagna toscana con i territori del papato. Effettivamente i lavori cominciano entro l'anno e viene trovato anche il nome da dare: Terra del Sole. Leggenda vuole che durante la cerimonia di posa della prima pietra si squarciassero le nubi e un raggio di sole illuminasse la scena. Da qui il nome ma bisogna tener conto anche della denominazione etrusca del sito che Plinio dice essere Solona; a parte tutte le congetture partono i lavori, dettati dalla necessità. Sono tempi difficili, al Granduca piace controllare di persona le condizioni dei suoi confini e investire grandi quantità di fiorini in strutture difensive non gli pesa assolutamente. Questa poi in particolare gli è cara dato che, a dar retta ai cronisti dell'epoca e anche a quelli posteriori, del papato del tempo e dei forlivesi c'era poco da fidarsi. Prova ne sia ciò che scrive Edoardo Warren “Colonnello delle Artiglierie e Direttore Generale delle Fortificazioni della Toscana” nel 1749 il quale riferisce che la “Città del Sole” oltre a compiti difensivi aveva come scopo il rappresentare un deterrente e un monito alla turbolenza dei confinanti romagnoli dal cui territorio i papalini, su istigazione dei Legati Pontifici, procuravano “...torti ai suoi sudditi e alla di lui persona (il Granduca)” senza la possibilità di “ottenere soddisfazione” arrivando a depredare i convogli che portavano il pesce d'Adriatico alle mense del Granduca in Firenze. Mi pare tuttavia che sia più probabile che l'oggetto delle grassazioni potesse essere piuttosto che la sarda o le canocchie della tavola granducale il sale che da Cervia arrivava ovunque fosse richiesto, articolo allora di grande interesse commerciale e fonte di notevoli guadagni essendo l'unico mezzo allora conosciuto e usato per la conservazione dei cibi. Ancora due secoli abbondanti dopo il Cardinale Legato Pontificio affermava “Plus dat parva Cerviola quam tota Romandiola” quindi figuriamoci se i turpi forlivesi del 1500 si sarebbero fatti scappare l'occasione di rapinare un carico di sale ogni tanto! Tuttavia, sale o non sale, una fortezza a difesa dei confini romagnoli evidentemente doveva essere necessaria perché completava il progetto globale delle fortificazioni di confine toscane al pari di Sasso Simone di fronte al Montefeltro e alla città fortificata di Livorno, Cosmopoli (Portoferraio). Il luogo era adatto: alla sinistra, sopra l'ultimo terrazzamento collinare in posizione dominante un castello di guardia, fiorentino dal 1509, in condizioni discrete nonostante le vicissitudini patite dai vari assedi e invasioni e armato al tempo della fondazione della Terra discretamente con “Archibusi da posta, moschetti, spingarde, mortai” e altre piacevolezze con “loro relative munizioni”, nonché di generi di sostentamento “le grascie” ovvero “sale, olio e aceto” ma si presume vi fosse anche altro.
Terra del Sole, le mura (foto Dino Spighi)
Alla sinistra il fiume come argine naturale. Aria buona, acqua a volontà, terra coltivabile, discreto volume di traffici, persino sorgenti di acque curative, completavano il quadro generale, inoltre era già abitato da tempo immemorabile, come già detto, sembra col nome di “Solona” per cui una patina di regale antica nobiltà conservata nel nome non guastava agli effetti del prestigio. Pare che la nascita della Terra del Sole fosse iniziata con una prima visita nel 1554, seguita poi da altre due in occasione di un'ispezione ai confini nel 1558 e poi della cerimonia ufficiale della posa della prima pietra nel 1569 ovvero cinque anni dopo l'inizio dei lavori. A parte il principio difensivo ispiratore del progetto il Granduca Cosimo I°, nella sua concezione di governante illuminato, si affidò ai canoni dell'umanesimo rinascimentale che seppelliva definitivamente il buio del medioevo riportando l'uomo al centro del pensiero. Nel lontano 1579, anno in cui la “Terra” cominciò ad essere abitata nelle sue case a schiera che per i canoni di allora rappresentavano un passo avanti notevole in quanto garantivano spazio vitale, aria e luce, strade ampie e ambiente onorevolmente lindo, si era compiuto un passo fondamentale per rimettere l'uomo nel giusto equilibrio con il creato, per una dignitosa vita sia privata che associata allo stesso tempo: era nata una “Città Ideale”. Ben distante il degrado dei tuguri medioevali, dei vicoli stretti e bui che caratterizzavano anche le città più grandi (avevamo esempi anche a Forlì: alcuni quartieri sono stati bonificati solo nei primi decenni del 1900), col loro carico di miseria, di abbrutimento e delinquenza diffusa che riduceva la vita a pura sopravvivenza pur nella brevissima aspettativa di durata di allora. In Italia e in Europa si sono costruite ex novo svariate “Città Ideali” sull'onda dei principi dell'Umanesimo.
Terra del Sole, Borgo Romano (foto Dino Spighi)
Si sono conservate magnificamente e abbiamo svariati esempi di architettura umanistico-rinascimentale: pianta a stella, quadrata, rettangolare, col reticolo ordinato delle vie, ampi spazi centrali, preoccupazione per un ambiente funzionale alla vivibilità ma mai disgiunto dalle esigenze di una difesa al livello massimo ottenibile in base alle tecnologie più avanzate del tempo e ai canoni più moderni di impiego delle risorse difensive sia attive che passive. Quindi mura possenti a doppia cortina e dotate di cannoniere e spazi di manovra e spostamento rapido delle artiglierie, camminamenti di ronda protetti, polveriere e quartieri di alloggiamento truppe, gallerie d'ispezione, speroni agli angoli per battere efficacemente le cortine sotto attacco, spazi per spostare agilmente le unità difensive, due porte con protezioni le più formidabili possibile ma anche particolare attenzione all'uomo, alle mutate esigenze di rispetto per l'essere umano di cui la cultura del tempo si fa portatrice tramite lo sviluppo di una architettura che si preoccupa anche degli spazi di civile convivenza, strade larghe, spazi verdi ariosi, secondo uno schema che possiamo definire “piano regolatore” ante litteram, in netto contrasto col caos informe dell'ammasso di passaggi e costruzioni medioevali spontanee. Case abitabili arieggiate e luminose dotate di pozzo e rete fognante, strutture destinate alla socialità, al mantenimento del rapporto di società civile soggetta a leggi e regole comuni e certe sotto la guida di chi era preposto alla funzione di condurre la popolazione verso livelli di vita migliori, spazi di convivenza, raduno e preghiera dimensionati in base alla popolazione. Tutto questo racchiuso da una bastionatura che forma una figura geometrica regolare, in particolare la “Terra” è a pianta quadrata più o meno regolare con quattro speroni agli angoli e due porte, Romana e Fiorentina che consentivano il passaggio vigilato dei carriaggi sotto gli archi delle fortificazioni ed è posizionata sulla sponda sinistra del fiume Montone che prima di scorrere accanto alle mura forma un'ampia ansa. Per consentire il traffico invadente dei mezzi motorizzati che nell'ultimo secolo hanno avuto il sopravvento, le vecchie porte sono state abbandonate tagliando le mura per creare un altro varco più comodo, tuttavia la antica strada acciottolata che attraversava porta Fiorentina e porta Romana è ancora percorribile e il varcare gli archi degli ingressi e sentirsi incombere sul capo i castelli del Capitano o del Governatore per poi percorrere i brevi tornanti in salita sistemati così ad arte per ragioni difensive crea ancora oggi una certa emozione. Percorri la strada principale con le case a schiera sui due lati e ti trovi su quella che un tempo era la piazza d'armi; guardi la chiesa di S.Reparata poi ti giri e ti trovi di fronte al palazzo Pretorio, a destra e a sinistra i palazzi stellati del Capitano e del Governatore. La protezione della potenza Granducale e quella della Chiesa, separate ma unite nella cura della Terra. Un occhio al Cielo ma tutti e due al quotidiano, avendo cura di mettere in risalto la capacità di dare sicurezza, di garantire il vivere civile: vivete tranquilli nel rispetto delle leggi, la potenza del Granducato veglia su di voi! Ed effettivamente la potenza di difesa poteva ben scoraggiare ogni attaccante. L'architetto Lanci qui aveva espresso la più alta interpretazione dell'arte edificatoria militare: meglio una Città-Fortezza che un castello, stante la maggior disponibilità di alloggiamento difensori e la possibilità di acquartierare armamenti possenti e, nonostante i canoni prevalenti dell'epoca, meglio costruirla in pianura piuttosto che in montagna stante l'abbondanza di approvvigionamenti idrici, la possibilità di una autonoma produzione di cibo, la vicinanza del fiume predisposto a inondare i fossati con semplici manovre. Oggi il fiume ha quasi carattere torrentizio ma allora, a giudicare dalle mappe, doveva avere una portata nettamente superiore e probabilmente era meno interrato di ora e facilmente scorreva in un alveo più libero, mantenuto sgombro da una pulizia più accurata delle rive stante l'utilizzo del legname di risulta come combustibile o come materia prima di costruzione di attrezzi agricoli o piccola falegnameria per gli oggetti di uso comune. Pare anche che alimentasse una “peschiera” ora interrata, così come sono ormai interrati i fossati a difesa che potevano essere allagati secondo necessità e non esistono più i ponti levatoi e i portoni corazzati che venivano aperti e chiusi mattina e sera, come descrive Nicolò Gherardini nel 1774 “Con grandissima fatica i predetti soldati possono la sera serrare e la mattina riaprire le porte ben massicce e grosse di questa Fortezza”. L'anno 1774 segna il declino della Città-Fortezza che viene disarmata pur continuando a segnare un confine: il progredire degli armamenti ha sorpassato ormai la funzionalità delle mura e dopotutto il confine verso la Romagna è tranquillo per cui è inutile mantenere guarnigioni dispendiose basta un corpo di doganieri per via del contrabbando e del controllo delle tasse.
TASSE E GABELLE
La vita comunitaria si sa è più piacevole della solitudine dell'anacoreta ma ci sono certe regole da rispettare e certi adempimenti da assolvere anche se dispiace veder partire una parte della moneta faticosamente raggranellata e diminuire una parte di autonomia, ma, Hobbes insegna, la cessione parziale di sovranità in cambio di un livello di sicurezza collettivo più elevato rappresenta certo un vantaggio anche se questo è un principio che a fatica si riesce a far comprendere anzi, la lotta tra l'Autorità costituita e il cittadino che tenta sempre di ciurlare nel manico non ha mai fine: oggi sono gli evasori fiscali perché la più comune merce contrabbandata è il denaro, ieri era il sale, il macinato, il pesce o qualsiasi altro articolo che potesse essere nascosto ai gabellieri. È curioso scorrere le cronache: mentre era punito severamente il contrabbandare verso “l'esterno” le granaglie, il flusso inverso era addirittura favorito. È del I° Luglio 1621 un “Bando di privilegio concesso alli contrabbandieri... nel ritorno con le bestie da Stati alieni per caricare a loro grani...” e si da ordine al Bargello “...di avvisare li Rettori di non molestare detti contrabbandieri” e non importava se i detti erano fiorentini o di fuori. Ma non solo: ai contrabbandieri è consentito di portare “archibusi a ruota lunghi e terzaroli per la spazio di circa un miglio dai confini” per “difendersi dai birri dello Stato Ecclesiastico all'atto dell'estrarre li medesimi grani” ovvero in caso di scontro con la dogana avversa. La necessità in tempi di carestia ammorbidiva molto la rigidezza delle leggi. Naturalmente prosperava lo scambio commerciale diciamo “non ufficiale” Vino e olio toscani contro granaglie romagnole ma non solo: bestiame, sale e ogni altra cosa richiesta circolavano per i sentieri meno battuti e sorvegliati. Molte famiglie di confine prosperavano su questi commerci come pure molte guardie: chiudere gli occhi per un sonno ristoratore o voltarsi a guardare un tramonto intanto che passava un mulo carico era affare di tutti i giorni e di molte notti salvo poi raccattare l'involto trovato in una siepe o in un fosso. E comunque questo lassismo è tornato utilissimo alcuni secoli dopo ai tempi di Garibaldi. La “Trafila” ha potuto portare in salvo il Generale con il minimo dei rischi ma non credo che le guardie confinarie fossero ad un livello di dabbenaggine così spinto da non accorgersi di nulla (per le campagne le migliaia di case erano sotto la custodia di migliaia di cani con buone e incorruttibili orecchie) : secondo me occhi e orecchie chiuse rappresentavano una specie di ripicca nei confronti del potere papalino poco gradito a tutti e oltretutto sostenuto dall'esercito austriaco che presidiava questi confini e si sa che l'invasore da queste parti è sempre stato poco simpatico. I confini tra staterelli e di conseguenza le dogane sono stati eliminati all'atto dell'Unità ma non si può dire che le corruttele siano finite. Al tempo in cui si pagava il dazio sulle transazioni ricordo acrobazie incredibili in occasione della macellazione del maiale per non pagare le gabelle e limitare l'obolo alle sole regalie alle guardie che accettavano volentieri. Nulla di nuovo sotto il sole ma questa è tutta un'altra storia! Il Legislatore si interessava di tutto quanto riguardava la vita del cittadino del Granducato, dalle festività alle misure dei vari articoli del mercato, da quello che si poteva fare a quello che era proibito e punito. In generale il buonsenso orientava dette ordinanze ma ce ne sono anche di curiose, come il “Bando delle rape” che comandava sotto gravi pene di seminare a rape almeno il venti per cento del terreno già destinato al grano e questo entro il 31 Agosto del 1621, oppure il tassativo divieto ai fornai di “fabbricare berlingozzi, confortini, gnocchi, pani impepati o simili sorte di paste” per risparmiare grano mentre diviene obbligatorio fare il “pane di mistura”. In tempi di carestia bisogna arrangiarsi! Sempre per mancanza di grano e per calmare la fame è fatto divieto nel 1595 di effettuare il sovescio di fave e vecce: qualunque cosa sia commestibile bisogna mangiarla, con le buone o con le cattive. La ragione stava sempre nel fatto che la produzione di cereali nella Toscana era costantemente insufficiente. Altra nota curiosa è che “il Commissario della Terra del Sole” bandisce che “qualunque persona” che “... conducendo e portando a vender pesce in questa Podesteria non possino quello pesce mettere in vendita se prima non saranno venuti alla Corte a ricavare il giusto prezzo da darseli da chi s'aspetta” e questo nel 1616. Una nota particolare merita la cura estrema esercitata sui beni demaniali, in particolare per i boschi e per la silvicoltura per merito della quale oggi possiamo ancora usufruire della bellezza della foresta Casentinese sia sul versante toscano che su quello romagnolo. La prima disposizione in materia, quanto mai saggia è del 1513 seguita negli anni successivi da rigide norme che imponevano ad ogni taglio la messa a dimora del doppio di quanto abbattuto. Sintomatico è il bando del 1685 che proibisce di tagliare olmi per farne particolari per carri e carrozze, stante la penuria dei detti alberi dato che si trattava di materiale strategico per la fabbricazione di affusti da cannone e casse per archibugi,“...dovendosi ragionevolmente preferire il bene pubblico al privato...” Principio che dovremmo applicare al nostro tempo... in teoria, ma quanto disatteso!
Terra del Sole, Palazzo del Capitano (foto Dino Spighi)
È interessante notare come il legislatore si sia preoccupato di fissare il calendario e le regole per la raccolta delle uve e delle olive da olio denotando una cura per la qualità che era sconosciuta nello stato papalino ma che continua a dare i suoi frutti anche oggi dato che, se vogliamo, possiamo far risalire le D.O.C. e le D.O.P. in embrione, più o meno all'epoca della fondazione della “Terra”. Se i Commissari di S.A.S. Il Granduca potessero rivivere oggi certamente inorridirebbero e come prima reazione farebbero rimontare in piazza in ogni comune il ceppo e la mannaia del boia al vedere che le nobili Arti della Lana (espressamente proibite agli Ebrei), della Seta e del cuoio ora sono per la quasi totalità in mano addirittura cinese: ai tempi della fondazione della “Terra” era proibito persino mandare a tingere “le pannette, acce o lane” nello Stato Pontificio sotto minaccia di gravi multe e pene, solo tollerato il commercio di “pannine basse” di valore “inferiore a soldi 50 il braccio” nelle località di confine come la “Terra”.
MERCATO
A proposito di vendite i mercati settimanali sono da sempre stati motivo di contendere tra la “Terra” e Castrocaro stante la scarsa condiscendenza di quest'ultima a cedere sovranità e il troppo basso livello di intensità abitativa della “Terra” e, non ultima, l'estrema propensione agli affari da tenere sottobanco, leggi evasione e contrabbando. Questa passione dura tutt'oggi: se si può combinare qualcosa per cui si evita di pagare una gabella allo Stato si fa volentieri e non conosco praticamente alcuno che si tiri indietro per cui, ovviamente, l'evasione fiscale è sempre un argomento della massima attualità. Ai tempi del Granducato la pletora delle leggi e leggine relative alle tasse e gabelle varie corredate dalle relative tabelle è sbalorditiva e c'è da perdersi a volerle leggere tutte per raccapezzarsi sul dove e sul quando, ad esempio, di dovessero vendere “uova o formaggi o polli o capretti” e “che non sia Pizzicagnolo, Beccaio o Hoste che ardisca... comprare o far comprare...fino alle 15 hore di detti giorni” Potenza della burocrazia! Tornando ai mercati questi sono stati fissati con alterne fortune praticamente ad ogni giorno della settimana, modificando secondo il momento, abolendoli o rendendoli bisettimanali per cercare di attrarre una più vasta clientela ed inserirli in un circuito permanente di eventi importanti come ad esempio è stato con i grandi mercati bestiame di Lugo o di Sogliano al Rubicone o le fiere annuali più importanti. Anche ai giorni nostri non sono mai riusciti a conquistare posizioni di preminenza nel quadro regionale per cui restano sempre mercati e fiere a livello strettamente locale sena echi nazionali. Quattro sono le Fiere annuali alla “Terra” e quattro a Castrocaro ma evidentemente hanno poco successo tanto che le autorità, ancora nel 1842, devono rivolgere una supplica al “Regio Trono” affinché venga eliminata la “Tassa di Barriera” per i Forlivesi altrimenti addio frequentazione del mercato. Oggi resiste la Fiera di S.Reparata nella quale, spento ormai lo spirito dal quale erano nati i mercati come luogo di incontro e di comunicazione e scambio, prevale il richiamo spettacolare e folcloristico, con il Palio, le esibizioni degli sbandieratori e dei balestrieri e le forzature storico-rievocative di cucina e di costume medioevali ma senza arrivare alle passioni estreme quali ad esempio quelle che si esplicano nel Palio di Siena che servono a scaricare tensioni e a mantenere basso il livello di violenza intrinseco alla natura umana.
LA VIOLENZA DELLA LEGGE
I testi di Sociologia analizzano la società medioevale definendola “a solidarietà meccanica” intendendo con questo significare che ogni individuo che commette un delitto di qualsiasi gravità deve essere punito non come portatore di un danno ad un suo simile ma come autore di uno sfregio alla comunità, alla “conscience collective” , ovvero all'insieme delle credenze collettive, tanto che spesso assieme al colpevole vero e proprio la punizione gravava sull'intero complesso dei parenti e non era mai una punizione lieve. La pena di morte veniva applicata anche per cose che ora sarebbero al massimo passibili di sanzioni pecuniarie per cui in ogni città sede di tribunale, nel bel mezzo della piazza principale, troneggiava il patibolo e le cronache descrivono esecuzioni raccapriccianti per il nostro modo di sentire ma che, fino a non troppo tempo fa, sono rimaste in essere. I patimenti dei condannati erano motivo di commento e persino divertimento, monito e lezione per coloro che casomai avessero intenzione di infrangere le leggi ma, come ognuno ben sa, la punizione non ha mai fermato la delinquenza a nessun livello e in alcuna epoca. Le carceri della Terra non erano propriamente un luogo di delizie, tanto è vero che si ha notizia di suppliche rivolte al Granduca per essere trasferiti alle Stinche di Firenze, carcere notoriamente duro, quindi considerandolo un sollievo ben si può immaginare quali potessero essere le condizioni delle galere della Terra: basti dire che una delle segrete si chiamava “l'Inferno” e che gli indici di mortalità tra i detenuti erano altissimi. Se non ci pensava il boia ci pensavano il freddo, la fame e i patimenti, altro che i diritti dei detenuti! Solamente verso la fine del 1700 il Granduca Pietro Leopoldo I abolisce le torture e fa demolire il patibolo trasformando le pene in condanne ai lavori forzati: un modo come un altro per assicurarsi mano d'opera a bassissimo costo.
Terra del Sole, Chiesa di Santa Reparata (foto Dino Spighi)
Comunque sempre un passo avanti rispetto alle sequele di morti ammazzati dalla vendicativa giustizia medioevale. Ma non è da credere che imperasse l'oscurantismo più brutale. Ci si divertiva anche.
IL CONSENTITO E IL PROIBITO
La passionaccia per le carte ha radici lontane. Ben lo sapeva l'amministrazione della Romagna Fiorentina quando imponeva bolli e tasse sui giochi e sanzioni forti sui trasgressori e sugli scommettitori clandestini. Tutti i giochi d'azzardo che ora conosciamo sono nati allora quindi nulla di nuovo sotto il sole: sempre le guardie interrompono gli azzardi e sempre i giocatori ricominciano. Esistevano anche giochi concessi come il “gioco del pallone” per il quale però ad un certo punto si richiese un'area esterna stante la pericolosità “per le persone e le case prospicienti la piazza” Dovrebbe trattarsi del “pallone Fiorentino”, gioco di una violenza inaudita che dava libero sfogo alle energie represse incanalate in tal modo su modulo codificato per smorzare le potenzialità distruttive, come d'altra parte si fa ancora oggi con il Palio di Siena o con la Battaglia delle Arance. Pure la “Ruzzola” era praticata, ma non in città. Per chi non lo sa la “Ruzzola” consiste nel lanciare, aiutandosi con una stringa avvolta sul bordo, un disco, generalmente un formaggio stagionato, lungo una discesa: vince chi arriva più lontano sul percorso e ovviamente raccoglie le vincite. Un tempo erano le ruzzole degli altri, ora sono quattrini. Severamente codificati anche balli e feste: solo di Carnevale e seguendo direttive ben precise. L'ombra del boia aleggiava su tutto e i “tratti di corda” si sprecavano, stante i disordini e le violenze commesse durante i mascheramenti con rissa incorporata. La preoccupazione del legislatore non si fermava nemmeno di fronte al lato più intimo dei rapporti amorosi. Un “Magistrato dell'Honestà” provvedeva ad avvisare la cittadinanza mediante bandi che le meretrici iscritte in apposito albo “non ardissero abitare tra le mura né tanto meno esercitare l'antica arte pena la fustigazione e un pagamento in denaro.” Dava tuttavia la possibilità di pentirsi e di essere cancellate dall'albo previa la constatazione “per legittima et chiara probatione, ch'avessero lasciato la disonesta vita meretricia” Alla loro morte il loro capitale, detratte le eventuali spese per debito e nel caso in cui non ne avessero già disposto a tal fine, in ragione “della quarta parte delle loro sostanze e beni doveva essere applicata, ipso iure, al Monastero e Monache delle Convertite” “ed ogni contraria disposizione doveva essere irrita e inane” Dal fango può nascere un fiore; se poi “la canaglia” insiste nel peccare che male c'è a ricavarne un modesto aiuto per gli orfanelli? Per questo il Magistrato si preoccupa di tenere aggiornato il registro delle allegre donnine, non vorremo mica perdere introiti! Tuttavia l'ardente sangue romagnolo era eternamente in ebollizione e, stante le inesistenti conoscenze mediche nel campo, non era raro il caso di aborto, infanticidio, abbandono e il solito Magistrato aveva il suo bel da fare a proibire, a vietare, a minacciare. La scarsa illuminazione, gli androni bui e la non proprio strenua resistenza delle oneste donne portava talvolta a conseguenze non volute ed epiloghi disastrosi. A seconda del censo la legge prevedeva due pesi e due misure: legnate ai ceti inferiori e protezione e consegna del silenzio per quelli superiori: “procurare l'assicurazione del parto con ogni segretezza, convenienza e carità maggiore praticabile per preservarli la reputazione” Come si evince i privilegi hanno radici lontane e non passano mai di moda. Basta seguire le cronache odierne per rendersene conto.
CONCLUSIONI
Nonostante le pecche del sistema nel Granducato si viveva probabilmente meglio che nel resto d'Italia, certamente meglio che nello stato Pontificio ed è facile che all'atto dell'Unità la condizione dei cittadini della Terra sia regredita. Leggendo le cronache e i resoconti di chi si è preoccupato di scavare negli archivi e riportare alla luce atti pubblici, curiosità e cronache spicciole, salta subito all'occhio che il Granducato si occupava minuziosamente di tutti gli aspetti della vita quotidiana mediante codifica distillata nei secoli e adattata alle situazioni locali; al contrario il Regno d' Italia era nuovissimo, con tutto ancora da inventare, da organizzare su basi anche lontane dal modo di vivere locale tanto è vero che ancora oggi tanti aspetti della normale attività di una popolazione sono lasciati all'improvvisazione, non so con quale vantaggio per la vita comunitaria e per la prosperità degli abitanti della Terra. Prendiamo ad esempio l'attività termale: grosso modo le Terme hanno un'origine nel tempo simile a quelle di Chianciano o Montecatini oppure Abano ma quanta divergenza nello sviluppo. Terme e territorio avrebbero una potenzialità ben più elevata di quella odierna ma mi sembra che la valorizzazione cammini molto a rilento. Dagli anni Venti la Terra è passata sotto la Giurisdizione della Provincia di Forlì per conseguire quel minimo vantaggio burocratico dovuto alla vicinanza al capoluogo ma questo non incide granché. Passano gli anni, sono passati i secoli, gli eventi aleggiano sulla vita delle persone, qualcuno si preoccupa di annotare i punti principali, qualcun altro si occupa dei fatti spiccioli che puntualmente i mezzi di comunicazione registrano per incrementare il patrimonio storico, che noi naturalmente abbiamo toccato con levità e solo in alcuni aspetti, senza approfondire, senza soffermarci troppo anzi tralasciando parecchie cose che rimandiamo agli scritti più specifici di don Enzo Donatini per il cui aiuto ringrazio sentitamente essendo lui il maggior studioso della storia locale e il più profondo conoscitore di usi e costumi della Terra del Sole. Dal suo libro “La Città Ideale” Edizioni del Girasole e da altri scritti viene il materiale per queste poche righe.
IL PALIO DI S. REPARATA
Verso la fine di Agosto / primi di Settembre si svolge alla Terra il palio di S. Reparata da circa cinquanta anni. Rito che si ripete, secondo me, abbastanza stancamente con grandi sventolii di bandiere, performance di costumi, balestre, verrettoni a bersaglio (i balestrieri della Terra sono campioni nazionali), strepito di chiarine e soprattutto spiegamento di banchi di mercato con l'eterna profusione di merci a buon mercato, articoli mangerecci sopratutto, esposti dai moderni mercanti quasi tutti extra comunitari. Nulla a che vedere con la figura del mercante medioevale, portatore di notizie dal mondo esterno, figura discussa, temuta e riverita allo stesso tempo, in grado di informare le piccole comunità chiuse in se stesse delle novità, delle mode, delle cronache dei fatti fuori dai confini. Oggi i mezzi di informazione fanno egregiamente il loro dovere per cui il mercante errante è divenuto un semplice ambulante di mercanzia varia: se ci sa fare vende, altrimenti è meglio che cambi mestiere. Ma torniamo al nostro Palio. Mi pare che ci sia poco mordente, poco accanimento. Forse dipende dal fatto che non ha radici lontane, non coinvolge fino al parossismo di un Palio di Siena, fino alla partecipazione totale della gente di ogni quartiere al completo. Cinque o sei balestrieri per parte, un po' di tiro alla fune, sbandieratori di contorno ed è finita lì. Rievocazioni storiche all'insegna del fai da te. Campeggio nel prato sotto i bastioni Nord tipo accampamento medioevale ma con roulottes e moto al seguito, prodotti simil-antichi, volenterose donnine che filano la lana, indefiniti tentativi di cucina a livello servo della gleba, mescite di vino ma con lattine di birra e coca-cola un po' dappertutto, odore di caffè e articoli di paglia e corameria più o meno decorata in tema. Anche la rievocazione guerresca è un po' così: si affrontano due schieramenti sul campo sotto il bastione Sud. Qualcuno ha guantoni e stivaletti da moto, qualche altro ha una vistosa sciarpa di una nota squadra di calcio. A parte questo non mi pare che si vedano particolari segni distintivi di fazione ma forse non è una condizione determinante: è sufficiente che siano circa metà di qua e metà dall'altra parte, le insegne medicee o gli stendardi di Giovanni dalle Bande Nere sono rimasti nei libri di storia. Al segnale convenuto si affrontano a colpi di spadone o di picca con grandi urla di incoraggiamento, ovviamente attenti a non farsi male. A tal fine sono imbottiti all'inverosimile di giubbotti paracolpi e protezioni varie; il grado di copertura è talmente elevato che rischiano l'infarto come d'altra parte già avvenuto, causa eccessivo calore non disperso. Per ovviare all'inconveniente a lato del campo abbondante rifornimento di acqua fresca e la presenza rassicurante dell'ambulanza con dotazione di emergenza, defibrillatore e personale specializzato. Nonostante tutto capita pure una storta per via di una buca sul terreno o un dito rotto per causa di una botta data con malagrazia; ecco allora il provvidenziale intervento di medici e paramedici. L'infarto preso a tempo si può domare e per il dito rotto stecche e ghiaccio secco poi via all'ospedale. Per il resto finisce a tarallucci e vino: grandi piatti di tagliatelle, cappelletti, porchetta, vino a profusione, ciambella. Non straripa certo di Storia, il potere evocativo è abbastanza debole, quello che succede oggi succederà anche l'anno prossimo, con poche varianti. Oltre tutto è difficile anche visitare le strutture architettoniche, mi pare che solo quest'anno sia iniziato il recupero delle mura con i restauri conservativi. Tutto questo non attira turismo, quando l'hai visto una volta è inutile tornare, poi il richiamo non è forte, la risonanza è piuttosto debole, fatica a passare i limiti dei comuni limitrofi, poco impegno, poco investimento pubblicitario. È peccato perché la Terra merita un avvenire turistico, una valorizzazione migliore che non sia un Festival delle voci nuove: in fin dei conti l'architetto Lanci ha inciso nella storia ben più che una di quelle voci nuove e la Storia che di qui è passata ha lasciato solchi ben più profondi di quelli di un disco musicale ma, gira gira, è sempre una questione di soldi.
Commento inserito da
Giuseppina Fabbri in data 01/10/2013 09:42:18
www.vecchiazzano.it/p.asp?p=1562&i=1281
Altro che "tentativo"! Coniugare rigore storico e poesia non è da tutti. Ma ho trovato in rete e letto gli articoli di "Un anno insieme"... e ho capito. Grazie!
Commento inserito da
Andrea Gorini in data 02/10/2013 11:24:22
www.vecchiazzano.it/p.asp?p=1562&i=1282
Complimenti! Vorrei indicare che dello stesso autore di questi articoli ha pubblicato un libro (di Edizioni Carta Canta - Forlì), che nel solco della tradizione Artusiana illustra le ricette casalinghe di un tempo, inframezzate da ricordi e considerazioni varie, assolutamente da leggere.