In tempo di Olimpiadi, dove il business e l’ipocrisia si intingono di quel nazionalismo che, per chi scrive, non va mai ad arricchire la cultura e la gnoseologia di una forma espressiva, quindi d’arte, come lo sport, c’è chi ha ancora la velleità, più realisticamente, l’ingenuità, di accostare lo sport professionistico, al fondatore dei “cinque cerchi” moderni: il barone Pierre De Coubertin. Bene, a questo punto c’è da chiedersi: “ma il barone era proprio come ce lo hanno narrato? E che resta, nello sport, di quello che è stato speso come il pensiero del pedagogo e storico parigino? Diciamolo pure, perché è la verità: di De Coubertin, da decenni non c’è più niente, semmai ci sia stato, non solo fra i professionisti, ma anche fra i dilettanti camuffati e quegli amatori che hanno, di fatto, una base piena di sindrome da professionismo. Esclusa l’elite dello sport nella sua interezza, della sfida sportiva prima di tutto con se stessi e del gusto dell’impresa come proprio intimo patrimonio, ci restano solo degli esempi da considerarsi sparuti, visto il vasto e variegato mondo dello sport. Quasi tutti provengono di amatori considerabili come anomali, ovvero poco inclini a cimentarsi nel quadro di un confronto con gli altri e col traguardo fatto di anticipi di ruote, o di corpi, o di gol. Oddio, chi scrive, mica vuole demonizzare o contestare la competizione, anche solo per un prosciutto, o una coppa di latta, ci mancherebbe! Sono liberi di farlo e non c’è niente di male. Ma il sottoscritto, se apre questa riflessione-constatazione, lo fa perché s’è semplicemente scocciato di navigare nella melma di ipocrisia di quell’osservatorio che, ancora, pretende di raccontare ai giovani, o meglio, ai bambini, la favola dello sport senza un fine, di una sua purezza immacolata, come unica lettura di un luogo da considerarsi incontaminato ed isolato dal resto della società.
Fandonie, ovviamente, come fandonie stellari sono quelle di chi, da dirigente sportivo a da politico, da giornalista o intellettuale e via dicendo, spara bugie o esemplari forme di stupidaggini, mostrando stupore o rabbia di fronte ad un caso di doping. Cultura signori! Le alchimie siamesi allo sport e, perché no, alla vita, sono vecchie come il cucco: per lo sport, sprofondano al 784 avanti Cristo, quando il re greco Ifito con la conquista dell’Elide, ripropose, dandone i primi precisi riscontri storici, quei “giochi sportivi”, che la Grecia ancor più antica, era solita svolgere fin da oltre 1500 anni prima e di cui si narrano le fondamenta negli eroi per eccellenza della culla della storia, ovvero Ercole, Teseo, Castore e Polluce fino a Pelope. Ci sono storie su come si “truccavano le carte” a disposizione degli atleti antichi e ci sono ragioni di pensare che non fossero “dolci euchessine”, visto come l’uomo moderno, pur nell’esplosione crescente delle conoscenze scientifiche e nelle traduzioni tecniche, ha saputo disimparare, nei secoli, l’abilità nell’incrociare talune naturalità presenti e comuni. Ad esempio, nessuno è ancora riuscito a capire come facessero gli antichi egizi, a mummificare così bene i loro re e, tanto meno, nessuno, nemmeno il pool di scienziati della Nasa, ha portato alla luce il segreto “egizio e non solo”, che consentiva lo spostamento di tonnellate e tonnellate di massi enormi, per costruire le piramidi. Ad onor del vero, qualcuno, esattamente Edward Leedskalnin, armato della sua quinta elementare, di un malaticcio passato da esule e con pochi piccoli attrezzi, riuscì, tutto solo, nella titanica impresa di costruire e spostare il “Coral Castle”, un’opera tanto simile allo sforzo di una piramide, ma morì, nel 1951, prima di poter raccontare il suo “ancestrale” segreto. Insomma, nell’antichità, di conoscenze figlie dirette di una certa naturalità ne esistevano…. Ed allora, perché non pensare che le pomate miracolose provenienti dalla Tracia - che lottatori e discoboli si facevano spalmare di nascosto, perché fuori regolamento, dalle ancelle, in cambio di qualche ora d’amore fisico - altri non fossero che formidabili alchimie dopanti? Suvvia, se l’osservatorio odierno, fosse meno “bacchettone” ed un poco più realista e acculturato, verrebbe da aggiungere, non si farebbe abbindolare dall’ipocrisia di chi nega l’evidenza per specifici interessi, come il cosiddetto “governo dello sport”, ma si spenderebbe per la realistica considerazione che lo sport, è figlio di questa società, coi pregi e gli immani difetti di questa. Quindi non un tassello puro, o da vedersi come tale. In altre parole, quella forma espressiva chiamata sport, altri non è che un riflesso dai nitidi contorni del nostro cammino, mosso dalle medesime spinte degli altri campi della vita, perlomeno nella sua stragrande maggioranza. La nicchia, o meglio, la zolla, che può considerarsi anomala, proprio perché sincronica al raccontato di De Coubertin o dello spirito sportivo che tanto amano i bacchettoni, è dunque, come detto, data da un nugolo di ardimentosi che amano mettere in discussione se stessi e, soprattutto, fanno dello sport, un’impresa in grado di arricchire la loro mente sollecitando il massimo possibile del corpo. Un gruppo che è sì ancora numeroso, ma estremamente minoritario nell’oceano degli sportivi, dove la meta è “farcela”, dove non ci sono prosciutti, dollari e fama, dove non ci sono giornalisti che non sanno raccontare senza l'appoggio dei paparazzi, dove gli stessi politici dello sport o della politica, sempre piccoli entrambi, non si spendono, spesso nemmeno per le fregnacce retoriche che sembrano a loro siamesi.
Questi ardimentosi personaggi a cui va l’interesse dello storico e l’applauso dell’appassionato che scrive, sono gli ultimi eroi di un’Olimpiade che si protrae, anche se poco letta o, addirittura, considerata o pensata inesistente; sono i prosecutori di quell’homo sapiens che correva un giorno e ne nuotava mezzo, per arricchirsi di un pasto; sono gli echi finali di una volontà che è ancestrale in noi, ma che abbiamo abbandonato vinti, come siamo dalla concretezza, spesso unita al danaro, degli obiettivi da raggiungere in un mare di fretta. Sono dei romantici, senza la reale volontà di esserlo, per un chiasmo che si dipana sugli orizzonti, accecando le moderne antropologie, per unirsi a quei richiami che sono troppo grandi, per essere narrati nelle pagine di un razionale sempre più miope. Verso di loro, l’inchino è un obbligo, anche se ad inchinarsi sono in pochissimi. E qui, viene il protagonista che, chi scrive, vuole ancora una volta esaltare: Giorgio Zauli, geometra di Vecchiazzano di Forlì.
Qualcuno dirà al sottoscritto: “Bèh, scrivi queste cose, perché è un tuo amico…”. Niente di più falso. A Giorgio si deve ammirazione, perché ha coraggio, potremmo pure dire… “tanta fantasia nella fatica”. Cerca la sfida con se stesso sulla bicicletta, quando sarebbe più facile, per uno come lui che sull’ammiraglia del ciclismo ha vinto tanto ed è stato ai vertici mondiali, guidare qualche nuovo talento, oppure cercare di emergere in una granfondo come tanti amatori. Invece no, lui cerca la voce più complicata di ciò che ha imparato e vissuto nello sport che più ama. Cerca di spostare i confini di quei centri nervosi che il grande Giorgio Oberweger, nel profondo degli anni cinquanta, giudicava come la bomba più naturale ed insostituibile per raggiungere le performance più impensabili. Vuole provarsi e far tesoro di ciò che la fatica e le difficoltà sanno imporre all’io, a quel personale patrimonio che se ne frega della vetusta e tendenzialmente idiota immagine dell’apparenza. Vuole conquistare un premio che non è materiale, ma spirituale, proprio perché lo spirito è laico, ed è possibile a tutti, anche se qualcuno lo confonde come esclusivo pegno di un credo, letto, sottoscritto e consumato, sotto le lenzuola della fede religiosa. Sì, se proprio lo vogliamo, le Randonnèe, le più massacranti ed impervie delle prove in bicicletta, sono il teismo di Giorgio. Le sue praterie.
“Dietro un brevetto, ci sta un oceano” - pare dire il “Zurlo”, nella scanzonata “normalità” di quella sua quotidianità che si dipana, appunto, sotto le insegne dell’apparenza ignava e che mai ti farebbe pensare al possibile patrimonio di lacci, fra sofferenze mentali e fisiche unite all’unisono, che le prove di durata sulla bici sanno portare. Giorgio Zauli dunque, del brioso e riconoscibile Team Outsider, s’appresta ad un’altra impresa delle sue: Domenica 18 agosto, partirà da Nerviano, nel milanese, per la 1001 Miglia d’Italia, una Randonnèe che prevede, solo sulla carta, perché senza imposte soluzioni di continuità, ben 19 tappe, per complessivi 1600 chilometri, densi di salite anche aspre e….di caldo. Sono 400.000 i metri in più che Giorgio dovrà percorrere, rispetto alla sua grande conquista dello scorso anni di questi tempi, ovvero la Parigi Brest Parigi. Soprattutto, vi saranno asperità con intensità e altitudini, non presenti nella prova francese. Anche il tempo limite, posto a 130 ore, non è proprio generoso.
Sopra, il "manifesto della prova".
Sotto, l'aspra altimetria.
Ma sui dettagli, rimandiamo i lettori alla prossima pagina. Quel che ora ci preme evidenziare è la condizione particolare con la quale Zauli si appresta all’impresa. Poco più di una settimana fa, mentre percorreva una discesa su un percorso agreste in mountain bike, è caduto rovinosamente, rimediando botte e abrasioni in tutto il corpo. Gli è andata bene, perché poteva andare molto peggio, vista la tipologia dell’incidente, ma sicuramente, quelle che erano le tappe di avvicinamento alla 1001 Miglia d’Italia, sono state stravolte. La sua condizione dunque, è piena di interrogativi, ma da bravo testimonial delle Randonnèe, scansando le ammaccature, ha già ben preciso il trend per affrontare la difficilissima prova. “Partirò alle 21 di domenica da Nerviano – ci ha detto – e voglio pedalare fino alle 24 di lunedì 18, con l’obiettivo di giungere ad Apecchio, in provincia di Pesaro Urbino, allo start della sesta tappa, dopo aver percorso poco meno di un terzo di corsa, esattamente 511 chilometri. Li mi riposerò qualche ora e farò il punto sulle mie condizioni, per trovare la chiave migliore per proseguire. L’importante è giungere nuovamente a Nerviano all’interno del limite delle 130 ore complessive. Avvicinarmi alle 100, che è l’obiettivo di tanti fra i 232 partenti, non mi interessa”.
Ad accompagnare ed assistere Giorgio Zauli, nella conquista di questo nuovo grande brevetto, quattro figure, tutte della zona e tutte molto importanti per giungere all’impresa. Amilcare Ghetti, compagno di squadra di “Zurlo” nel Team Outsider, ed amico dello stesso da sempre, lo seguirà in camper, proprio come in occasione della Parigi Brest Parigi. Ad Amilcare, si unirànno altri due cicloamatori dell’Outsider, Enrico Strocchi e Fabio Sansovini.
Vecchiazzanesi, o col cuore ed attività commerciali in Vecchiazzano, anche i due sponsor dell’impresa: il Panificio Agatensi di Simone Agatensi e Pencil Fotografia di Andrea Gorini, “deux ex machina” di questo sito.
La 1001 Miglia d’Italia, avrà un paio di tappe in Romagna: la quarta, che da Massa Finalese (MO) si concluderà (per modo di dire) a Bagnacavallo di Ravenna e la quinta, che dal comune del ravennate porterà i rannedonneurs a Savignano sul Rubicone, dove, presso il Seven Sporting Club, è previsto un controllo ed un dormitorio.
La manifestazione, organizzata dalla “S.A.V. 95 Anni Verdi” sotto l’egida dell’Udace, porterà il caleidoscopio di colori dei “faticatori della bicicletta”, sui territori di ben otto Regioni: Lombardia, Emilia Romagna, Marche, Umbria, Lazio, Toscana, Liguria e Piemonte.
P.S. Lasciando perdere il plurale maestatis….avrei voluto seguire l’impresa di Giorgio, come feci lo scorso anno, in occasione della Parigi Brest Parigi, portando sul sito e sui giornali locali, gli aggiornamenti sul suo tentativo. Purtroppo, ben difficilmente potrò essere conseguente: proprio nei giorni della 1001 Miglia, sarò a Les 2 Alpes, in Francia, a svolgere conferenze e a registrare trasmissioni per la Pantani Channel. Già, proprio un’emittente in streaming, di cui Vecchiazzano.it, con questo mio inserimento, è il primo sito ad annunciarne la nascita…. Spetterà al grande Andrea Gorini, fare in modo che l’impresa di Giorgio Zauli, abbia il peso che merita. A Giorgione, il mio più convinto e partecipato: “in bocca al lupo!”
Ai lettori di www.vecchiazzano.it i miei più cari saluti.
Maurizio Ricci (Morris) |