Nell’ultima casa di Vecchiazzano, lungo la via Veclezio al n°68, abitava la famiglia Verità. Quando venne l’ordine di sfollare, Giulio Verità, sua moglie e le figlie andarono in casa della famiglia Benedetti, detta casa Mônt o Canèra , in via Tomba al n°69, a poca distanza da quella di Verità.
Sta di fatto che dei tedeschi in ritirata trovarono un commilitone morto in casa Verità e quando gli stessi il 7 novembre del 1944 si recarono in casa Benedetti, dove erano sfollate tre famiglie, quelle dei Verità e dei Fregnani e la famiglia di Alfredo Lodolini di Bologna, fecero radunare tutti gli uomini e li rinchiusero in una stanza, compreso un bambino di 11 anni, mentre un tedesco piantonava le donne. I prigionieri trascorsero, così, un’intera giornata poi, nel pomeriggio, il bambino venne liberato e venne consegnato alle donne. Le donne e il bambino, verso le 19,00 dell’8 novembre, furono condotti lungo un sentiero con l’ordine di recarsi in una, imprecisata, casa colonica, che raggiunsero solo nelle prime ore del giorno seguente. Alle tre del mattino, dello stesso giorno, nella casa arrivarono anche gli inglesi. Le donne, temendo per la vita dei loro uomini, fecero pressione perché i soldati le aiutassero a rintracciare i loro mariti e i loro figli. Così, verso l’alba, gli alleati, il gruppo delle donne e il bambino, accompagnati da alcune persone del luogo, si avviarono verso la casa Benedetti.
Quando entrarono in casa videro un gran disordine, poi passarono vicino al pozzo e notarono alcune scarpe per terra e delle tracce di sangue sulla vera del pozzo. Subito pensarono al peggio e, guardandovi dentro, costatarono che i nove uomini erano stati uccisi.
Sebbene la guerra stesse per finire e la sconfitta nazifascista fosse ormai certa, anche in questa circostanza estrema, i tedeschi applicarono, rigidamente, le disposizioni del comando delle forze armate germaniche che prevedeva l’uccisione di dieci civili al posto di un tedesco morto, per atti di guerriglia partigiana. Così, mentre gli inglesi liberavano Vecchiazzano, agli uomini “dell’eccidio Benedetti” furono legate le mani dietro la schiena, con del filo di ferro, e poi furono uccisi con un colpo di rivoltella alla tempia. Infine, i corpi furono gettati nel pozzo e ricoperti da assi, perché non affiorassero.
I loro nomi erano:
Giuseppe Benedetti di anni 73 Antonio Benedetti di anni 45 Pasquale Benedetti di anni 43 Leopoldo Benedetti di anni 37 Francesco Benedetti di anni 21 Romano Benedetti di anni 17 Giulio Verità di anni 44 Angelo Fregnani di anni 76 Alfredo Lodolini di anni 31
Il 9 novembre 1944, alle ore 5,00 del mattino, gli inglesi entrarono in parrocchia salendo dalla “bassa”, lungo la stradina del cimitero.
In seguito, altri soldati inglesi entrarono a Vecchiazzano, su tutta la linea del fronte, avanzando per i sentieri e attraverso i campi.
Intanto, i tedeschi osservavano dal campanile della chiesa di S. Varano le manovre degli inglesi e bombardavano sopra Vecchiazzano.
Germano Mingozzi, detto Bacóca, si recò in casa Zirundén per chiedere alcune assi che dovevano servire per costruire le casse ai trucidati di casa Benedetti. I funerali vennero eseguiti la domenica pomeriggio dell’11 novembre e le bare vennero caricate sopra un carro agricolo, per raggiungere il cimitero di Vecchiazzano.
Le famiglie di Luigi Assirelli, di Gaspare ed Enrico Bergamini e di Pietro Mingozzi, che abitavano in via Tomba ed erano unite fra loro da vincoli di parentela, avevano costruito un rifugio sotto un albero, in una riva del rio che costeggiava la via. Le famiglie uscirono dal rifugio per rendere omaggio alle salme, quando giunse una granata tedesca che, colpendo l’albero, uccise cinque persone e ferì gravemente una bambina di un anno. La bimba morì poi all’ospedale il 25 dicembre 1944.
Vecchiazzano fu bersagliata dai bombardamenti fino al 13 novembre 1944, giorno in cui i tedeschi abbandonarono le postazioni di S. Varano e ripiegarono in direzione di Faenza. In quei giorni, per lo scoppio di una granata, rimase ucciso anche Livio Monti, detto Muntalêt. La cassa per Livio fu preparata da Arculin (Ercole) ad Zirundén e da Lindo (Olindo) ad Fatin, falegname di Vecchiazzano che abitava in via Tomba.
La Germania, ormai, non era più in grado di frenare l’avanzata alleata e il fascismo non godeva più dell’appoggio militare e popolare di un tempo. Da tutti i paesi d’Europa e d’America, la Germania veniva attaccata e si arrese il 9 maggio 1945. Nello stesso mese di maggio e in quello successivo, ritornarono a casa i soldati e i prigionieri italiani, superstiti nella guerra o nei campi di concentramento. Il loro stato fisico e morale era disastroso, specialmente per coloro che avevano subito le deportazioni nei campi di concentramento in Germania. Per i familiari di coloro che, invece, non fecero ritorno rimase il ricordo dei loro ragazzi esuberanti, pieni di vita e l’amarezza per quella gioventù consumata sotto il fuoco nemico o lungo una steppa desolata, nell’assurdità di una guerra.
Nell’estate del 1945 ritornò da Mauthausen (Austria), dove era stato prigioniero Ubaldo Ghetti, detto Rusghëla. Giunse a Vecchiazzano, dove abitava alla strada della Punta, che pesava 28 chili. In quel campo di concentramento nazista aveva subito inenarrabili sofferenze fisiche e morali e aveva visto morire per malattia, per stenti e per sterminio migliaia di persone.
Dopo l’8 settembre 1943, quando a Vecchiazzano si formarono i primi gruppi partigiani, Ubaldo Ghetti aderì nel gruppo comunista e venne incarico nel “traffico” dei collegamenti fra le provincie di Forlì e di Ravenna.
Ubaldo Ghetti venne catturato all’inizio del 1944, mentre ignaro di ogni sospetto si trovava, tranquillamente, nella sua casa di Vecchiazzano. L’arresto venne determinato dalla rivelazione di un giovane partigiano di appena sedici anni che, catturato dalla milizia fascista, venne messo “sotto torchio” e “cantò”, facendo il nome di Ubaldo Ghetti. Dopo l’arresto, Ghetti venne incarcerato nelle prigioni di Forlì e, in seguito, venne processato a Parma assieme ad altri compaesani. La maggior parte di loro venne scarcerata, ma Ubaldo Ghetti venne condannato a 21 anni di carcere e condotto a Mauthausen, dove in quel campo di concentramento aderì nuovamente alla resistenza. Tramite l’organizzazione del campo e, soprattutto, grazie al suo spirito di conservazione, che non l’abbandonò mai, riuscì ad evitare i forni crematori e a tornare in Italia. (Da una testimonianza verbale di Ubaldo Ghetti)
Con questa parte si conclude il racconto storico di Vecchiazzano. Ora la vecchia frazione agricola si congiunge alla città di Forlì ed è in continua espansione edilizia. In breve tempo, da Vecchiazzano si raggiungono le colline di Massa e di Sadurano, che dall'alto dominano la vallata del Montone con l'ampia vista di Forlì: ad est il colle di Bertinoro, a sud Rocca delle Caminate, a nord il castello di Montepoggiolo, ad ovest Monte Paolo dove pregò S. Antonio di Padova e lungo la Statale per Firenze "la cittadella ideale" di Terra del Sole e Castrocaro Terme.
Nelle foto - L'eccidio Benedetti (foto scattate dall'esercito alleato, provenienti dall'Inghilterra)
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