La celletta votiva della “Vergine Addolorata” di Vecchiazzano Non si conosce la data di esecuzione di questa celletta, ma dalla tipologia dei mattoni si presume sia stata eretta nella seconda metà del XIX secolo, quando a Vecchiazzano fu costruito il ponte sul fiume Rabbi. L’edicola votiva era collocata “ab antiquo” a destra del fosso che costeggiava la strada comunale, in un terreno di Olindo Casadei. Nel 1955, il podere era condotto a mezzadria dalla famiglia di Angelo Valpiani, detto Filén. La celletta, invece, era custodita da Vittoria Casadei, detta Vitöria ad Congia o Mignucca, sorella di Olindo, la quale curava anche il vicino roseto e metteva i fiori davanti all’immagine della Vergine. Quando l’anziana donna venne a mancare, la celletta rimase incustodita e abbandonata a se stessa. Il tempo passava e la polvere si adagiava sempre più sulla piccola statua di terracotta, dallo sguardo dolce e malinconico. In seguito, il comune di Forlì fece allargare la strada di Vecchiazzano e, anche, il vicino fossato fu chiuso, mentre dietro la celletta furono costruite le nuove scuole. L’edicola votiva si trovò, scomoda e antiestetica, proprio in mezzo al nuovo marciapiede. La celletta, per la sua veneranda età, era tutelata dai Beni Culturali e, quindi, non poteva essere abbattuta. Ad abbatterla, invece, fu la strana dinamica di un incidente stradale. Il 10 novembre 1988, una moto “Vespa” guidata dal diciottenne Marco Perugini, di Vecchiazzano, usciva dalla via T. Campani e andava ad urtare contro una FIAT “Ritmo”, che proveniva dalla via Castel Latino. Il giovane, alla guida del ciclomotore, veniva sbalzato contro la celletta votiva che, per l’urto, veniva demolita. La maestra Maria Assunta (Tina) Tolomelli, insegnate nelle vicine scuole elementari, così descriveva il fatto: “10 novembre, circa ore 13,20, ora di ricreazione dopo il pranzo. Non si può uscire per il freddo, ma la maestra Carmen di III A con i suoi scolari si avvia fuori verso la recinzione che divide la scuola dalla strada; è successo qualcosa, ha sentito un botto. Anch’io, maestra Tina della classe II A, coi miei scolaretti m’incuriosisco ed esco. Da lontano si può notare che il piccolo monumento o celletta della Madonnina, che era antistante il recinto non c’è più. Ci avviciniamo e possiamo vedere che un’auto azzurra è quasi arrampicata sullo zoccolo di mattoni rimasto, ha il vetro davanti con un enorme buco, il cofano ammaccato e sporco di sangue; dalla parte opposta giace una vespetta contorta, parecchie macerie sono ricadute all’interno del parco della scuola, proprio dove ci troviamo ora, nel punto dove i bambini amano giocare maggiormente se ci fosse stato il sole. Quello è un angolo interno di fronte al “Bar dei cacciatori” e in quell’ora, babbi, nonni o zii vanno a prendere il caffè e vengono a salutare i loro bimbi che sono rimasti nella scuola a pranzo. I feriti sono già stati trasportati in ospedale. Il fotografo del “Carlino” ci dice che lo scontro è stato frontale, il ragazzo della “Vespa” ha rotto con la testa il vetro della macchina, però, avendo il casco, ha riportato una larga ferita e relativa rottura d’una gamba; l’autista dell’auto solo vari graffi. La polizia è in azione, scrive col gesso in terra vari numeri. Mentre stiamo a curiosare ritroviamo sotto un albero il manubrio della “Vespa” e un bimbo della mia classe vede fra le macerie la Madonnina; mi chiama, me la indica; è lì a testa in giù, si confonde coi mattoni rotti. Si avvicina un poliziotto, gli indico la statuetta, lui la raccoglie. Mi preme che quella Madonnina non resta incustodita e chiedo se posso tenerla nella scuola a disposizione di chi poi si occuperà dell’accaduto. La Madonnina è non solo impolverata per l’incidente successo, ma è piena di vecchie ragnatele, è sporca di trascuratezza. I miei scolari, tutti maschi vivacissimi, sono seri, mi seguono in classe. Lavo la statuetta con precauzione, non voglio togliere il colore al mantello né alterare il volto. E’ una povera statuetta di terracotta, mite e ingenua con le sue manine congiunte, dall’incidente ha riportato solo qualche scheggiatura. In quel momento non ero la maestra, facevo le cose d’istinto pensando solo al da farsi; perciò mi sono meravigliata quando i miei scolari, così piccoli, (appena sette anni ancora non tutti), così superficiali, così esuberanti mi hanno detto: “Abbiamo pregato maestra”, mi sono sentita in colpa per non averlo detto io e poi li ho guardati, erano seri, tranquilli e sembrava proteggessero la Madonnina da mani indiscrete. Per la cronaca il cancellino di ferro è stato consegnato alle bidelle che l’hanno portato nella mia classe. Il giorno dopo la maestra Ave di III A è andata a vedere cosa restava della celletta e fra i mattoni ha visto la croce di ferro, l’ha raccolta e me l’ha consegnata.
Su richiesta del gruppo “Amici di don Biagio”, il prof. Marco Tadolini, dell’Istituto Statale d’Arte per la Ceramica di Faenza, così periziava il materiale fittile che compone la statua dell’“Addolorata”: “Oggi, 29 novembre 1988, ho esaminato attentamente una statuetta in terracotta policroma, raffigurante la Madonna, presentatami dal sig. Gilberto Giorgetti. Si tratta di un manufatto in terracotta di fattura popolaresca, ricalcante una tipologia assai diffusa in tutto l’ottocento. Il fatto che il rivestimento policromo non sia né vetroso né a ingobbio, ma si tratti di una patina applicata a freddo e ben conservata, fa supporre che il manufatto sia stato prodotto in epoca più recente, ad imitazione della tipologia ottocentesca. Questa è quindi soltanto una supposizione, non ulteriormente comprovabile, considerando che - in diverse occasioni - sono stati rinvenuti frammenti ceramici, rivestiti senza ulteriore cottura, risalenti addirittura al Cinquecento. Il materiale con cui è stata foggiata la Madonna è la classica argilla da Faenza, facilmente rinvenibile nella zona basso-collinare romagnola, tipico deposito di origine alluvionale. Tale argilla è prevalentemente di tipo illitico-montmorillonitico, ad elevato tasso di ossido di ferro e calcare (carbonato di calcio). La presenza di quest’ultimo composto, unitamente alla fuoruscita dell’acqua sia in essiccamento che in cottura, ed alla combustione delle sostanze organiche presenti nella terra, comporta dopo cottura una persistenza di elevata porosità, fino ad una temperatura di circa 1050° - 1100°. Queste argille sono fusibili, per cui, da questa temperatura in poi, vetrificano frettolosamente e fondono bruscamente intorno ai 1200°. Osservando il manufatto, si evince che la temperatura di cottura non dovrebbe aver superato i 900°. Infatti l’impasto, oltre che essere altamente poroso, è anche abbastanza facilmente sgretolabile. È probabile, come era in uso fra i ceramisti popolari (e lo è spesso tuttora) che la cottura sia avvenuta in una delle fornaci da laterizi, presenti un po’ ovunque in Romagna sino ad alcuni decenni or sono. È altresì probabile che la stessa materia prima impiegata fosse la stessa utilizzata per la produzione dei mattoni. Lo fanno supporre i diversi inclusi, presenti nell’impasto, osservabili nelle parti screpolate del pezzo. Si deve quindi scartare l’ipotesi di un’argilla sottoposta a fini setacciature. In sintesi, il manufatto è costituito da un supporto di colore rosso mattone, altamente poroso, di bassa resistenza meccanica. Ciò comporta una sua particolare fragilità, propria - del resto - alla maggioranza delle ceramiche porose di fattura popolare.
La statua dell’“Addolorata” di Vecchiazzano, soggetta ad alta fragilità, si era salvata rimanendo intatta in mezzo alle macerie Per questo motivo, il gruppo “Amici di don Biagio” si fece promotore affinché la celletta e l’“Addolorata” ritornassero al loro posto, quale segno di devozione a questa immagine della Vergine rimasta illesa nell’incidente. Su progetto dell’ing. Angelo Sampieri di Forlì, l’edicola votiva veniva ricostruita a ridosso del muro di cinta delle scuole elementari ma, per motivi di viabilità pedonale, un po’ più ad ovest della posizione originale. La nuova celletta venne inaugurata la domenica del 25 maggio 1997. Questa statuetta dell’“Addolorata” riproduce una nota scultura dei fratelli Graziani, chiamata in volgo “la Madòna di sët dulùr”, che si conserva tuttora a Forlì nella chiesa di Santa Maria Assunta in Schiavonia.
Nella foto - Vecchia Celletta votiva di Vecchiazzano |