Vorrei segnalare nella sezione “Cosa non piace del paese”, la mancata riparazione da ormai circa un anno dell’altalena per i bambini nell’area verde di Via Veclezio vicina all’asilo ed alla Chiesa. Visto che l'area è molto frequentata e che a Vecchiazzano mancano altre Aree Giochi con altalene per i bimbi più piccoli, è auspicabile a questo punto una rapida soluzione del problema. N’approfitto anche per segnalare che l’area verde non è ad oggi ancora stata de intitolata a nessuno e approfitto dell’occasione, per lanciare l’idea venuta a mio figlio che sia intitolata nel 23ennale dal disastro, ai “POMPIERI DI CHERNOBYL” che incuranti della certezza di una morte sicura s’immolarono con il loro sacrificio non solo per spegnere l’incendio ma di conseguenza per il bene e la salute nostra e dei nostri figli.

A conferma delle mia proposta riporto quanto pubblicato alla pagina web:
http://firehelmetcollection.blogspot.com/2008/09/il-casco-sovietico-nazionale.html
“…Uno dei fatti degli ultimi anni che maggiormente mi hanno impressionato per la fortissima carica emozionale risale al 26 aprile del 1986, quando nelle prime ore del mattino il reattore numero 4 della centrale nucleare di Chernobyl, nel territorio dell’attuale Ucraina, a seguito di un esperimento fallito e sfuggito al controllo esplose, proiettando nell’atmosfera tonnellate di polveri radioattive. Appena prima dell’una e venticinque di notte, con le fiamme che sprigionavano alte decine di metri nel locale del reattore, l’allarme suonò alla caserma interna dei pompieri numero 2 della centrale di Chernobyl: nella stanza di controllo c’era una pulsantiera luminosa con centinaia di spie collegate ai rivelatori di fiamma, uno per ogni stanza del complesso; erano accese tutte. Quella notte di guardia c’era Anatoli Zakharov, pompiere veterano dislocato a Chernobyl dal 1980: tra i primi a partire, appena sceso dal camion accanto all’edificio in fiamme non ci mise molto a capire da dove provenissero i pezzi di grafite incandescente conficcati nell’asfalto fuso del piazzale, portati dall’esplosione del reattore; disse: “mi ricordo che scherzavo con gli altri: ci deve essere una quantità incredibile di radiazioni, qui. Siamo fortunati se domattina siamo ancora vivi…” Lui lo è ancora mentre 16 compagni su 28 degli equipaggi di vigili interni della centrale, i primi ad intervenire, sono morti nei giorni immediatamente successivi all’incidente. I detriti incandescenti del reattore avevano innescato l’incendio della guaina bituminosa di copertura dei tetti degli edifici adiacenti, rischiando di fare propagare l’incendio al locale turbine o, peggio ancora, al vicino reattore numero 3; così mentre Zakharov rimase a presidiare il camion fermo sul piazzale il tenente Pravik prese con sé gli altri vigili della squadra e, appoggiata una scala, salì sul tetto per spegnere il fuoco della copertura. Fu l’ultima volta che Zakharov vide i suoi colleghi vivi; erano privi di abbigliamento protettivo o dosimetri: i detriti radioattivi si erano fusi con il bitume incendiato e, quando il fuoco venne spento cominciarono a spostare e togliere a mani nude i pezzi di copertura per poter procedere verso il cuore dell’incendio, supportati dai rinforzi arrivati dalla vicina città di Pripyat. Pravik e i suoi uomini riuscirono a portare le condotte d’acqua fino all'orlo del reattore in fiamme, in una ultima, eroica e purtroppo inutile azione di coraggio: la grafite delle barre di controllo esplose bruciava a oltre 2000 gradi, e continuò a farlo per molti mesi, indifferente a tutta l’acqua che le veniva buttata addosso. I pompieri di Chernobyl vennero esposti ad una dose di radiazioni letali superiore perfino alle vittime di Hiroshima, dove si produssero raggi gamma solo nell’istante della detonazione e a 2500 piedi di altezza. I vigili in azione sul tetto del reattore rimasero in loco per più di un’ora, esposti a raggi gamma e neutroni emessi dall’uranio e dalla grafite radioattivi in fiamme, a dosi di 20.000 roentgen/ora (la dose letale è di 400): dopo 48 secondi di esposizione la loro morte era sicura. Vennero rilevati dai colleghi e portati, con febbre e vomito, in ambulanza all’ospedale locale e da qui trasferiti a Mosca all’ospedale numero 6, specializzato nel trattamento delle radiazioni. Qui morirono dopo due settimane, vittime di esposizioni talmente intense da far diventare blu gli occhi castani del tenente Vladimir Pravik; il pompiere Nikolai Titenok subì ustioni interne così severe da presentare ulcerazioni al muscolo cardiaco; tutti vennero sepolti in sarcofagi sigillati in piombo. Nelle prime ore del 26 aprile 1986, 37 squadre di vigili del fuoco – 186 pompieri e 81 camion – giunsero a Chernobyl dall’intera regione di Kiev; alle 6:35 avevano preso il controllo degli incendi visibili attorno al reattore numero 4, ed anche se il cratere continuava a bruciare il capo dei pompieri di Kiev riferì che l’emergenza era passata; il reattore numero 4 era andato; al suo posto un vulcano di uranio fuso e grafite in fiamme; un incendio impossibile da spegnere. Ancora una volta i pompieri erano andati a sacrificare le loro vite per salvare quelle di altre persone: credo che in quell’occasione abbiano, senza retorica, salvato il mondo……”
|